Chiariamo subito che non si tratta degli anni 30 o 40, quando ancora si usavano penna e calamaio, anche se i banchi della scuola elementare dove mi sedevo erano di legno, di quelli in cui sedia e banco facevano un tutt’uno, c’era il vano sottobanco e soprattutto il buco dove una volta si metteva il calamaio con l’inchiostro e la scannellatura per il pennino.
La scuola di cui parlo è quella degli anni sessanta, a Palermo, nella scuola Francesco Paolo Perez, nella omonima via vicino alla stazione Centrale.
Era una scuola davvero fatiscente a quei tempi, dopo è stata ristrutturata. I corridoi erano ampi e le classi erano colorate fino alla metà con la vernice marrone e ricordo ancora la grande mappa geografica della Sicilia. Era una scuola popolare dove la maggior parte degli scolari faceva parte della Palermo meno abbiente. Infatti, almeno una volta ogni 2 o 3 anni chissà quale Istituzione forniva un paio di scarpe ai piccoli studenti.
C’era allora l’usanza di provvedere anche alla merenda per i bambini: si chiamava refezione mi ricordo, ma non bastava per tutti per cui le maestre dovevano distribuirle secondo criteri non proprio democratici. Eravamo una ventina in classe o poco più, ma la refezione era disponibile solo per una decina di scolari ogni giorno. E visto che quasi tutti ce la passavamo male economicamente, la si poteva ricevere a turno. In qualche classe i maestri davano la merenda come premio per meriti scolastici. In questo ero privilegiato perché ero tra i più bravi della classe. Il vero premio agognato, però, non era la merenda ma una coccarda circolare e tricolore che veniva apposta sul petto di chi aveva ottenuto un voto eccellente.
La refezione consisteva in un bocconcino di pane con un companatico diverso ogni giorno: un pezzetto di cioccolata, un formaggino rotondo avvolto nella carta stagnola dorata, un pezzo di cotognata incartata in cellofan trasparente e, la preferita, il bocconocino condito con lo sgombro. Il giorno della cotognata era pericoloso essere presenti a scuola perché questo companatico non piaceva a nessuno per cui una volta ricevuto non veniva consumato ma scartato dall’involucro e lanciato nelle file di ragazzini all’uscita dalla scuola. Spesso, i più monelli la spalmavano sui capelli dei compagni più antipatici con le conseguenti zuffe fuori dall’edifico. “Ti aspetto fuori!” si minacciava, e tra un cerchio di spettatori ci si ruzzolava a terra, nella polvere, ma ricordo che nessuno si faceva davvero male. D’altronde si trattava pur sempre di bambini.
Facevano molto più male le botte e le tirate di orecchi che si subivano quaotidianamente dai maestri che le davano di santa ragione agli scolari più indisciplinati. I genitori non si lamentavano di questo e non c’era nessuna denuncia, come adesso, anzi, i più monelli, una volta a casa ricevevano “il resto” dai genitori perché si erano comportati male e rischiavano la bocciatura.
Le classi erano rigorosamente divise in maschili e femminili e le aule su corridoi diversi cosicché non si incontravano mai le compagne dell’altro sesso. A dire il vero, non ricordo di averle mai viste! Forse uscivano in orari diversi o forse la memoria mi inganna. D’altronde ricordo benissimo che tutti eravamo obbligati ad indossare il grembiule, che era nero, spesso rammendato e sicuramente sporco di gesso bianco per via della lavagna dove di tanto in tanto si andava a scrivere. Più spesso a cancellare quello che aveva scritto la maestra.
L’abbigliamento scolastico, oltre al grembiule, prevedeva un colletto bianco che si ostinava a girarsi di sbieco e non sempre, un bel fiocco che nel caso della mia scuola era verde, ma poteva essere di altri colori in altre scuole o addirittura a pois azzurri per i maschietti e rosa per le femminucce.
Il corredo scolastico era davvero minimo: non esistevano gli zaini, ma si andava a scuola con la cartella che certe volte era di cartone, al più di plastica. Con un solo scomparto dove venivano sistemati l’unico libro, nei primi due anni, e dalla terza elementare il secondo libro, il sussidiario che comprendeva tutte le materie. Poi un quaderno, uno solo, una matita con temperamatite ed una gomma da cancellare. In prima elementare non si usava ancora la penna, solo dalla seconda in poi.
Era previsto un solo maestro per ogni classe ed era compito suo occuparsi di insegnare tutte le materie. Se era bravo e capace bene, altrimenti l’insegnamento era insufficiente e nessuno se ne preoccupava più di tanto.
Non si faceva mai ginnastica perché neppure era prevista una palestra, ma credo che questo sia stato un limite della mia scuola. La maestra una volta ogni tanto, ci faceva alzare acccanto al banco: due o tre flessioni, le mani alzate ritmicamente per una decina di volte e in 5 minuti “l’educazione fisica” era fatta!
Gli orari erano pressappoco gli stessi di adesso, ma nella mia scuola c’era un sovraffollamento di scolari per cui si era costretti a fare tre turni: nel mio caso le lezioni cominciavano alle 11.00 di mattina per finire alle 14.00. Questo ci consentiva di fare i compiti la mattina stessa e soprattutto di vedere circa un’ora di film in bianco e nero nel mese di maggio, quando in occasione della fiera del Mediterraneo per non so quale ragione, alle 10 di mattina, la TV di Stato trasmetteva ogni giorno un film. Naturalmente potevo vederne solo l’inizio e mai la fine perché alle 11 dovevo essere a scuola.
Ovviamente non tutte le scuole dovevano essere le stesse e molto dipendeva dalle varie zone di appartenenza. E ancora adesso è lo stesso.
Oggi si parla di metodologie di insegnamento, di progetti, di strategie, di programmazione
scolastica, allora tutto era più semplice e lineare e molto dipendeva dalla qualità umana e professionale degli insegnanti. E tutto sommato non credo che le persone della mia generazione siano cresciute più ignoranti o meno preparate degli studenti di oggi, anzi…
Saverio Schirò
noto con piacere che nonostante l’età i ricordi li hai ancora lucidi, hahahah