Che ogni governo abbia bisogno di tassare il popolo per gestire le spese, è comprensibile, ma quello che riesce ad inventarsi per ottenere più denaro dai contribuenti, lo vediamo ancora al giorno d’oggi, sono certe tasse davvero inspiegabili e immotivate! Purtroppo la storia è vecchia e poco o nulla è cambiato: tranne la reazione del popolo palermitano che una volta non si piegava di buon grado alle tassazioni inique e la gabella sulla luce era una di queste.
Ecco cosa accadde.
Palermo, come del resto gran parte della Sicilia, dalla fine del 1765 attraversò anni difficili per il susseguirsi di carestie dovute alla scarsezza di grano, per le continue siccità. L’allora viceré, Giovanni Fogliani, pur avendo governato con prudenza, generosità e saggi provvedimenti, da essere stato definito “padre dei poveri”, non fu così attento nella gestione di questi periodi di crisi.
Davanti alla scarsità dei raccolti, decretò che il prezzo del grano fosse dimezzato: ma, in questo modo, chi ne possedeva lo nascose in attesa di tempi migliori. E il cereale sparì dal mercato! Il rimedio escogitato fu la creazione di una “Giunta frumentaria” che si doveva occupare di acquistare il grano a qualsiasi prezzo e rivenderlo ad un prezzo più accessibile.
Per le finanze pubbliche fu una manovra economica disastrosa sicché, per reperire i fondi necessari, il Fogliani dovette inventarsi le tasse più disparate: sulla neve, sul carbone, sul vino, e appunto sulle porte e sulle finestre: quella che venne emanata il 21 settembre del 1770 come “Colletta sulle aperture”, ma il Marchese di Villabianca chiamò la “gabella della luce”.
Ecco in cosa consisteva.
Tutti gli abitanti della città avrebbero dovuto pagare, per le loro abitazioni, due tarì per ogni apertura che riceveva luce, porte o finestre, interne o esterne.
Erano inclusi i monasteri, i reclusori, i conventi ma non le chiese; mentre erano esentati dalla tassazione il Palazzo Reale, il Castello a mare e gli edifici militari. La gabella doveva essere pagata “una tantum” cioè una sola volta, per metà dal proprietario e metà dall’eventuale affittuario, entro un mese dall’emissione del bando, pena l’aumento della tassa a 12 tarì per ogni apertura. Di 12 tarì sarebbe stata anche la sanzione per ogni apertura non dichiarata o occultata.
La città venne divisa in quattro mandamenti e per ciascuno di essi quattro nobili e alcuni deputati dovevano vigilare sull’esecuzione del bando.
I palermitani, “apriti cielo!” Non erano per niente intenzionati a pagare questa tassa assurda: per prima cosa strapparono ogni copia di bando affisso nei palazzi pubblici e nei crocicchi delle strade. Al loro posto appesero cartelli e pasquinate sulle statue delle piazze, carichi di minacce contro il Pretore ed i suoi deputati.
Curiosa la protesta delle donne della Kalsa un giorno che il Pretore stava transitando lungo il foro italico: da sopra le mura delle Cattive, le kalsitane cominciarono a gridargli insulti mostrando il sedere nudo, costringendolo a rientrare verso porta Felice.
Fu forse in ricordo di questo avvenimento che un ignoto palermitano ha scritto questa ottava riportata dal Villabianca:
Già sapemu lu bannu d’avanteri.
Chi ogni pirtusu paga tarì dui.
Chi la culonna è in terra e va ‘nnarreri.
Lu sannu tutti e lu sapemu nui.
Ma resta un dubiu ’ntra li cavaleri.
Signuri duca, sciugghitilu vui.
Si lu pirtusu, chi avemu darreri,
è suggettu a lu bannu o paga cchiui.
Già conosciamo il bando di avant’ieri.
Che ogni buco paga due tarì.
Che la colonna (frumentaria) è a terra e va indietro.
Lo sanno tutti e lo sappiamo noi.
Ma resta un dubbio nei cavalieri.
Signor Duca, scioglietelo voi.
Se il buco che abbiamo nel di dietro,
è soggetto al bando o paga di più.
Neppure le monache e le suore furono “fini” e gentili nel manifestare al Pretore la loro protesta contro la gabella. Insomma una rivolta generale!
Molti i palermitani, in fretta e furia, murarono letteralmente tutte la aperture non necessarie, rendendo ancora più bui e inospitali i loro già miseri tuguri. E gli esattori che dovevano esigere il dazio? Era già difficilissimo entrare incolumi nei quartieri più popolari, e quelle volte che riuscivano a farlo, neppure entravano nelle case per contare le aperture, e per lo più se ne uscivano con una “dichiarazione di povertà” degli abitanti, che in quel caso nulla dovevano.
Quasi un anno dopo, nell’agosto del 1771, avevano pagato solo coloro che si sentivano in dovere di aiutare la città, ma erano così pochi che il nuovo Pretore di Palermo, Don Vincenzo Maria La Grua, incaricò i giudici pretoriani ad esigere il dovuto con la forza senza guardare in faccia nessuno!
Pessima strategia, perché tra le persone che avevano subito i pignoramenti delle case v’erano anche nobili e mercanti che con i loro grandi palazzi piene di finestre e finestroni non erano per niente intenzionati a uscire “la grana“. Insieme alle corporazioni delle diverse maestranze, sollevarono una tale protesta da “turbare la pace della città” cosicché, gli esecutori dovettero fare marcia indietro e rinunciare a proseguire nelle sanzioni.
E così, come spesso accade per le leggi insensate, tutto rimase nella carta: non sappiamo se il bando fu abrogato, ma di certo, nessuno ne parlò più.
Saverio Schirò
Fonti:
- C. Messina, Sicilia 1492 – 1799, Un campionario delle crudeltà umane, Ed l’Orma, Palermo 2022
- Giovanni Fogliani, in wikpedia.org
- G.E. Di Blasi, Storia cronologica dei Viceré Luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia, Stamperia Oretea, Palermo 1842