La Kalsa, dall’arabo Al Khalisa, che significa “L’Eletta”, è un quartiere arabo, nato come polo difensivo della città. Esso ha vissuto da sempre una propria autonomia rispetto al resto della città e fin dalla sua origine è stato popolato dai Kalsitani e dalle Kalsitane, che trascorrevano parte del loro tempo all’aperto: una vita fuori dalle mura domestiche, dove i giochi dei bambini e le chiacchiere delle donne, nei vicoli e nelle piazze, sono ancora oggi una prerogativa e una caratteristica di questo suggestivo quartiere.
Il mare e i suoi prodotti hanno sempre costituito una fonte di sostentamento, tuttavia non sempre bastevole, tanto che spesso erano proprio le donne Kalsitane, abili ricamatrici, a contribuire con la loro arte all’economia della famiglia da giovani e a collaborare con i mariti pescatori da anziane, rammendando le reti. “L’ago e la pezzetta mantien la poveretta”, questo antico detto ben connotava, infatti, la donna kalsitana, molto rinomata anche tra le nobildonne di Palermo, che spesso solevano commissionare ad esse preziosi capi ricamati.
I ricami erano realizzati secondo un’arte, che veniva tramandata da madre in figlia, perché questa costituiva per le kalsitane la principale dote di una donna.
Gli abiti erano caratterizzati da una mirabile compostezza di punti e una graziosa finezza del disegno, sebbene i ricami fossero, per lo più, in bianco. L’ordine e la compostezza dei ricami che esse realizzavano ben si contrapponeva all’atteggiamento, tutt’altro che ordinato, che esse spesso riservavano nei confronti di qualcuno o di qualcosa che recava loro danno.
Le donne kalsitane erano infatti rinomate, oltre che per la loro bellezza e la loro bravura nell’arte del ricamo, anche per la loro litigiosità esuberante e folkloristica. Mi riferisco in particolar modo all’aneddoto legato alla tassa delle finestre, che ebbe come vittima il pretore Duca di Cannizzaro.
Quando, nel 1770, si attuò a Palermo la tassa sulle finestre, una specie di “IMU” ante litteram, non basata sul valore catastale dell’immobile ma sul numero di aperture che ne individuava l’ampiezza, furono proprio le donne della Kalsa ad intervenire con la loro “schiacciante estrosità”. La protesta degli uomini contro questa tassa, che giunse a far sì che vennero strappati i numerosi bandi posti sui muri del rione e sostituiti con cartelli riportanti frasi irriguardose, fu infatti cosa da poco, se la si paragona alla protesta clamorosa mossa proprio dalle donne kalsitane: schierate sulle mura delle Cattive, accolsero la carrozza del pretore, che soleva passare da quella via, mostrando il proprio deretano e accompagnando la vicenda con “grida da spiritate e manate di fango”, tanto da indurre il pretore a fare retromarcia!
Un altro episodio, avvenuto in occasione della sommossa del 4 aprile 1860, vide protagoniste le colorite kalsitane, e in particolar modo le generose scopariote, cioè le abitanti di via Scopari la strada nei pressi di via Alloro, rinomata per la fabbricazione delle scope.
Dopo un infelice tentativo di sommossa, due rivoltosi, per sfuggire ai Borboni, si rifugiarono per diversi giorni nella cripta della chiesa della Gancia. Alla loro liberazione contribuirono le donne kalsitane di via Scopari che, rinomate per le “sciarre” (animate discussioni), tra le vicine di casa, quel giorno inscenarono un perfetta sciarra nelle migliori tradizioni del quartiere, tanto da richiamare le truppe borboniche che circondavano la chiesa e il convento. In questo modo, le donne kalsitane con la loro furbizia permisero ai due giovani di fuggire indisturbati attraverso un buco fatto nel muro, che prese pertanto il nome di Buca della Salvezza.
Sarà Maria Pitrè, nel suo scritto edito dal giornale di Sicilia nel 1903, dal titolo “La Kalsa e i kalsitani a Palermo”, a compiere una ricca e dettagliata descrizione delle borgatare “… vive dentro la cerchia ristretta dove essa è nata e cresciuta, dove ha amato e palpitato, dove ha famiglia, per la quale professa un vero culto. Nessuno svago, nessun capriccio la conduce fuori dal suo ambiente né le fa rimpiangere nulla, perché a Lei è ignoto tutto ciò che le è estraneo a quel piccolo mondo, tutt’ora quasi chiuso come rivela il nome originario arabo del rione”.
Da queste parole di Maria Pitrè si evince, infatti, come la donna kalsitana rivesta ancora un ruolo femminile tradizionale che, pur concedendo all’uomo la sua “superiorità maschile”, rivela, tuttavia, il ruolo solo apparentemente secondario di donna pilastro all’interno del nucleo familiare. Una donna dedita alla famiglia e alla casa, e pertanto amata e rispettata dai pescatori della Kalsa, tanto che essi dedicarono alle loro belle donne dagli occhi e capelli neri questo canto d’amore:“Biddizza rara!Vui mi pariti comu la chimera! Di vui, bedda, a lu munnu’ un cc’è la para!
Marichela Aricò
Tratto da “La Palermo delle donne” di Claudia Fucarino