Lo spettacolo della morte e della tortura nella Palermo antica

Mostrare gli orrori della morte era considerato il modo più efficace per limitare l’insorgere di azioni disdicevoli contro la comunità e la Chiesa. Ecco come funzionava questo macabro spettacolo.

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Immaginate di poter viaggiare nel tempo e di trovarvi nella Palermo del ‘600. La città pullula di vita e state passeggiando per la via Toledo (il Cassaro), ammirando le chiese e i palazzi nobiliari che vi si affacciano quando, arrivati ai Quattro Canti, il vostro sguardo viene attirato da una grossa trave appesa tra due edifici. Ma… c’è qualcosa che penzola dalla trave, cos’è? Ah, ma sono solo un paio di teste di qualche condannato a morte!


E più in là? Perché c’è tutta quella gente che guarda quel carro? Ah, perché sopra c’è una donna accusata di essere un’avvelenatrice, è seminuda e legata ad un palo, e il boia le sta strappando pezzi di carne dal corpo con una tenaglia arroventata. Probabilmente al termine del giro verrà giustiziata a piazza Marina.

Questo scenario, per quanto appaia inverosimilmente cruento, era purtroppo comune in Sicilia, soprattutto ai tempi dell’inquisizione.

Più volte in passato abbiamo parlato di come punizioni e pene capitali a Palermo si trasformassero spesso in veri e propri spettacoli, ad esempio raccontando degli autodafé. In effetti mostrare al popolo le conseguenze di eresia, stregoneria, congiura e altri crimini, è stato a lungo considerato il miglior deterrente, il modo più efficace per tenere a bada la cittadinanza e limitare l’insorgere di azioni disdicevoli contro la comunità, le autorità civili e la Chiesa.

Ecco alcune delle pene e delle torture più utilizzate in quel periodo.

Il macabro spettacolo

Pubbliche torture by wikipedia

Iniziamo dalle esecuzioni. Ovviamente non tutte erano svolte pubblicamente. L’allestimento di questo spettacolo della morte era riservato solo ai casi più eclatanti, ai crimini più efferati o agli eretici più noti, insomma, non si ammazzava in piazza qualunque Pinco Pallino, il pubblico conosceva bene il reo e le vicende che lo avevano fatto condannare a morte.

Che fosse per impiccagione, decapitazione o sul rogo, la pena capitale era inflitta quasi sempre con grande solennità, talvolta al termine di un corteo che conduceva il condannato dal suo luogo di detenzione, sino al patibolo.
All’arrivo, oltre alle autorità civili e religiose, il popolo si accalcava per assistere all’evento, compresi i bambini, che cercavano di arrampicarsi in cerca di una visuale migliore.

Fatto salvo per i roghi, dopo l’esecuzione il cadavere veniva spesso smembrato. Il corpo veniva di solito gettato in una fossa comune situata nei pressi dell’Ospedale di San Bartolomeo, alla Cala, la testa invece veniva issata su una picca e portata in giro per la città, come monito per la popolazione, ma anche a testimonianza dell’avvenuta esecuzione.
Al termine del macabro corteo, le teste venivano esposte in alcuni punti strategici della città. Oltre ai già menzionati Quattro Canti, i tipici luoghi di esposizione erano le campagne attorno alla città (come le zone dello Sperone, di Romagnolo e di Settecannoli).
Nei pressi del fiume Oreto, vicino al Ponte detto “delle Teste Mozze”, si trovava addirittura un apposito “espositore”, composto da una grande stele a forma di piramide dotata di ganci, sui quali venivano appunto collocati i capi mozzati.

La vista di queste teste, private dei loro corpi, ha innescato anche un particolare culto, quello dei Decollati, che vedeva queste anime come delle entità erranti in grado di intercedere per i vivi in cambio di una preghiera.

L’arte della tortura

Nel caso della tortura il procedimento era un po’ diverso. L’aguzzino doveva essere un vero esperto in materia, per fare sì che il torturato non morisse o perdesse i sensi durante il procedimento.

Alcuni supplizi venivano inflitti in caso di delitti considerati gravissimi, come “antipasto” prima dell’esecuzione. È il caso della tortura delle tenaglie arroventate (citata prima), inflitta ad alcune avvelenatrici. Un altro caso riportato dalle cronache riguarda quello di un operaio, che approfittando della tragedia del porto del 1590, durante il quale per un incidente il molo crollò trascinando in mare centinaia di persone, tra cui molti nobili. L’uomo si era lanciato in acqua per salvare uno dei nobili, ma vedendolo così vulnerabile, decise invece di annegarlo per rubargli i gioielli e gli altri beni preziosi che indossava.

Per questo efferato delitto l’impiccagione non era sufficiente, per questo si decise di tagliargli prima una mano, poi di legarlo ad una tavola e farlo trascinare per le strade da un cavallo fino al luogo dell’esecuzione, Piazza Marina.

Alcune pene più lievi inflitte pubblicamente consistevano nella gogna, che esponeva il reo al pubblico ludibrio, legato ad un palo per alcune ore o per qualche giorno, o nella fustigazione, quest’ultima riservata ad esempio a chi non onorava i debiti.

Altre forme di tortura erano invece più private, svolte nelle carceri o in altri luoghi specifici. Questo perché a volte richiedevano strumentazioni specifiche, ma soprattutto perché erano finalizzate all’ottenimento di una confessione.

Uno dei supplizi più utilizzati a Palermo era quello dei tratti di corda, che consisteva nel legare una corda ai polsi del torturato dietro la schiena e poi di sollevarlo mediante una carrucola. Questa procedura, semplice quanto dolorosa, poteva essere anche peggiorata legando dei pesi alle caviglie del reo o mollando la corda e poi arrestando improvvisamente la caduta prima di toccare il suolo.

Nelle cronache storiche si registrano anche metodi di tortura più creativi, che sono stati col tempo aboliti perché troppo pericolosi o perché quasi sempre adducevano danni troppo gravi e permanenti.

Uno di questi è la tortura del velo, che consisteva nel calare lentamente una lunga garza bagnata lungo la gola del condannato, mediante l’uso di molta acqua e di uno strumento di ferro. Una volta raggiunto il fondo dello stomaco, il carnefice doveva estrarre il velo, ma spesso l’accusato soffocava prima, motivo per cui si smise di praticare questo supplizio.

Un’altra tortura creativa consisteva nel cospargere di grasso le palme dei piedi del condannato e poi metterlo a pochi centimetri da una fiamma o dai carboni adenti. In questo modo i piedi iniziavano letteralmente a friggere, causando gravissime ustioni e spesso un’invalidità permanente.

Ancor più creativa, ma anche più crudele, era la tortura della capra, che riguardava sempre le piante dei piedi, che però in questo caso erano ricoperte di sale. A questo punto si lasciava che una capra iniziasse a leccare il sale (di cui è ghiotta), scorticando i piedi con la sua lingua ruvida, talvolta sino ad esporre le ossa.

Quando si tratta di arrecare dolore, l’uomo sa essere davvero fantasioso.

Fonti: S. Spoto, I Gattopardi, Roma 2007, Newton Compton Editori
C. Messina – Sicilia 1492-1799 una campionario di crudeltà umane – Editrice L’Orma 2022
Wikipedia.org – Metodi e strumenti di tortura
Foto Copertina by Depositphotos.com

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Samuele Schirò
Samuele Schirò
Direttore responsabile e redattore di Palermoviva. Amo Palermo per la sua storia e cultura millenaria.

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