Palermo 1724: l’atroce rogo di Suor Geltrude e Fra Romualdo

Una triste pagina di intolleranza religiosa

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La condanna come eretici e l’esecuzione al rogo di Suor Geltrude e Fra Romualdo fu l’ultimo atto dell’intolleranza religiosa che si consumava dopo circa tre secoli di attività del Santo Uffizio a Palermo: il 6 Aprile 1724 è la triste data di quell’ultimo vergognoso spettacolo allestito per celebrare il trionfo di un cattolicesimo medievale che stentava a rinnovarsi.

L’Inquisizione in Sicilia

L’Inquisizione era l’istituzione ecclesiastica fondata dalla Chiesa cattolica che, mediante un apposito tribunale, indagava sui sostenitori di teorie considerate contrarie all’ortodossia cattolica (le eresie) e in seguito anche sul comportamento morale dei cristiani. Ovviamente nel corso dei secoli, questa istituzione divenne occasione per accusare e condannare tutte quelle attività considerate sospette per l’integrità delle fede, ma anche per sbarazzarsi di persone scomode, fornendo testimonianze (non sempre autentiche) tramite una serie di informatori e collaboratori esterni chiamati familiares.

In Sicilia, l’attività di repressione dell’eresia risale ai tempi di Federico II, ed il giudizio e la relativa pena erano di competenza del re e della sua corte di giustizia. Dal 1300 l’ufficio passò all’Ordine domenicano con sede nel convento di San Domenico a Palermo. La terribile Inquisizione spagnola fu introdotta in Sicilia a partire dal 1487 e, tra alti e bassi, passò ai diversi dominatori dell’Isola fino al 16 marzo 1782, data della sua abolizione.

Gli inquisiti del Sant’Uffizio di Sicilia ammontarono a più di 7.000 persone: la maggior parte accusati per giudaismo (2.110 persone), 1.539 per apostasia, maomettismo e protestantesimo, 921 per magia e stregoneria, 598 per proposizioni ereticali, 580 per bestemmia, 485 per bigamia, 356 per oltraggio al Sant’Uffizio, 206 per atti sacrileghi, 188 per istigazioni a pratiche sessuali durante la confessione, 107 per eresia, 13 per sodomia e altri 63 inquisiti per delitti non identificati.
Di questi, sarebbero state giustiziate, al rogo o attraverso altre pene di morte, almeno 207 condannati: gli ultimi due a Palermo furono la benedettina Suor Geltrude e l’agostiniano fra Romualdo, entrambi condannati per “ostinata eresia”.

Chi erano Fra Romualdo e Suor Geltrude?

Fra Romualdo Barberi era un agostiniano laico di Caltanissetta ed aveva 58 anni il giorno dell’esecuzione. Suor Geltrude Cordovana era terziaria benedettina anche lei di Caltanissetta ed aveva 57 anni. 

Non sappiamo se si conoscessero, ma entrambi furono condannati per Quietismo e Molinismo. Si trattava di una corrente mistica che si era sviluppata in Italia alla fine del Seicento sulla base della predicazione del prete spagnolo Miguel de Molinos, ed aveva avuto larga diffusione in Sicilia.

Il Quietismo, detto anche Molinismo, sostiene che è possibile raggiungere la perfezione cristiana attraverso uno stato continuo di serenità e di unione in Dio, mediante una quiete passiva e fiduciosa dell’anima. Questa sorta di “indifferenza mistica” indirettamente arriva a negare l’utilità delle pratiche e delle liturgie della religione tradizionale per cui fu considerata una dottrina pericolosa. Infatti, nel 1687 il Quietismo venne condannato come dottrina eretica da Innocenzo XI con la Bolla Coelestis Pastor.

Fra’ Romualdo e suor Gertrude, in quanto seguaci di questa “infetta dottrina”, furono inquisiti e incarcerati nel 1699 quando avevano circa 32 anni. 
Dovevano essere entrambe anime semplici, dopotutto non complottavano chissà quale attentato all’integrità della chiesa, la loro era solo una scelta di vita, essenzialmente a livello personale. Nelle accuse, invece, oltre alle posizioni considerate eretiche, vennero loro contestate affermazioni deliranti: il frate avrebbe dichiarato di essere un profeta e di parlare con angeli inviati da Dio; mentre la suora di essere pura e santa ed avere un commercio corporale e spirituale con il Signore.

Affermazioni, che se autentiche, oggi farebbero semplicemente ricoverare i malcapitati in un reparto di Psichiatria, ma che a quel tempo “puzzavano” di stregoneria e maleficio.

Renitenti ad ogni tipo di pentimento, entrambi subirono le terribili torture che i tribunali del “santo Uffizio” erano capaci di inventarsi, e tuttavia rimasero nella loro posizione, dichiarandosi innocenti. Alla fine, furono dichiarati “eretici impenitenti” e destinati alla giustizia del fuoco, “per la purificazione dello spirito e del corpo“. Suor Geltrude avrebbe trascorso 25 anni in carcere, Fra Romualdo, 18 anni in carcere e 7 confinato in conventi penitenziali, fino al giorno della condanna al rogo.

L’Autodafé e la condanna al rogo degli eretici

La macabra e crudele usanza di bruciare vive le persone fu uno degli atti più vergognosi che la chiesa cattolica, ma anche altre religioni!, hanno perpetrato contro l’umanità.

In Sicilia circa 188 persone hanno subito questo terribile supplizio. A Palermo, l’ultimo Autodafé risaliva al 1658, e per 66 anni le pene per i condannati dall’ inquisizione furono meno severe. Questa volta l’Atto di fede che si sarebbe celebrato fu finanziato dallo stesso imperatore d’Austria Carlo VI, con la raccomandazione che fosse organizzato “in pompa magna”. 

Nel bando, emanato dal Tribunale della Santa Inquisizione, fu specificato che lo “Spettacolo della Fede” (o Atto di fede, Autodafé) sarebbe stato celebrato nel piano della Cattedrale. Una velata minaccia verso chi tra le autorità si sarebbe assentato, e un premio per tutti i partecipanti: avrebbero guadagnato l’indulgenza.

In pratica si trattò di una sottile manovra politica. Con questo Autodafé il viceré di Sicilia, Joaquin Fernandez Portocarrero, da un lato voleva rafforzare i rapporti tra la neo monarchia austriaca e la nobiltà siciliana, ancora legata alla Spagna, e dall’altro ingraziarsi il rispetto dell’autorità religiosa di cui il Santo Uffizio faceva parte.

rogo di suor Geltrude e fra Romualdo - il teatro della cattedrale
Il teatro dell’Autodafé nel piano della Cattedrale di Palermo tratto dal Mongitore inc. di F. Ciché XVIII secolo

Ecco dunque uno dei motivi per cui la cerimonia si sarebbe svolta riproponendo i fasti del passato governo spagnolo: processione dei penitenti, corteo dei nobili, del clero e degli esponenti del governo.

La grande tribuna fu allestita nel piano della Cattedrale dove si sarebbe svolto l’Atto di Fede. I condannati erano 28 persone: 26 avrebbero compiuto l’atto di sottomissione all’autorità religiosa e accolto le pene che consistevano in alcune anni di carcere e il pagamento di una cifra in denaro; i due condannati al rogo, invece, sarebbero stati accompagnati fino al Piano di sant’Erasmo dove era stato preparato il “teatro” per l’atto finale.

Abbiamo una memoria scritta di quell’evento, redatta a tre mesi dall’avvenimento, dal canonico della Cattedrale, il monsignor Antonio Mongitore che conosciamo per le sue apprezzatissime opere che riguardano la città di Palermo.

In questo caso, il trionfalismo del suo resoconto è piuttosto discutibile: certo il clima era quello repressivo della ottusità di una religione intransigente e crudele; la stesura venne commissionata direttamente dal Santo Uffizio, e tuttavia il carattere celebrativo del triste evento stona tantissimo con la sensibilità attuale. 

Diverso il racconto di questo atto di fede riportato dallo storico napoletano Pietro Colletta, circa un secolo dopo i fatti, dove si sottolinea lo sdegno e la vergogna per un atto così crudele perpetrato in nome di Dio.

«Il dì 6 di aprile di quell’anno 1724, nella piazza di Sant’Erasmo, la maggiore della città di Palermo, fu preparato il supplizio. Vedevi nel mezzo croce altissima di color bianco e dai lati due roghi chiusi, alto ciascuno dieci braccia, coperti da macchina di legno a forma di palco, alla quale si ascendeva per gradinata; un tronco sporgeva dal coperchio di ogni rogo: altari da luogo a luogo, e tribune riccamente ornate stavano disposte ad anfiteatro dirimpetto alla croce; e nel mezzo, edificio più alto, più vasto, ricchissimo di ornamenti per velluti, nastri dorati ed emblemi di religione. Questo era per gli inquisitori; le altre logge per il Viceré, l’arcivescovo, il senato e per i nobili, il clero, i magistrati, le dame della città. Ai primi albori le campane suonavano a penitenza: poi mossero le processioni di frati, di preti, di confraternite; che, traversando le vie della città, fatto giro intorno alla croce, si schierano al luogo assegnato. Popolata la piazza fin dalla prima luce, riempivano le tribune genti che, a corpi o spicciolate, con abiti di gala venivano al sacrificio: era pieno lo spettacolo, si attendevano le vittime.» 

«Già scorso di due ore il mezzo del giorno, mense innumerevoli ed abbondanti coprirono le tribune, così che la scena preparata a mestizia mutò ad allegrezza. Fra’ quali tripudii giunse prima la misera Geltrude, legata a sopra carro, con vesti luride, chiome sparse e gran berretto di carta che diceva il nome, scritto con dipinte fiamme d’inferno. Convolavano il carro, tirato da bovi neri e preceduto da lunga processione di frati, molti principi e duchi sopra cavalli superbi; e dietro, cavalcati a mule bianche, seguivano i tre padri inquisitori. Giunto il corteggio, e consegnata la donna ad altri frati domenicani e teologi per le ultime e finte pratiche di conversione, ricomparve corteggio simile al primo per frate Romualdo: ed allora gli inquisitori sedettero nella magnifica ordinata tribuna.» 

Ecco come il Mongitore racconta il rogo di Suor Geltrude e Fra Romualdo

Antonio Mongitore 1663 – 1743 foto by Effems via wiki CC BY-SA 4.0

«Circa le ore 23 e tre quarti entrò nello steccato il carro di Suor Geltrude, e quanto più avvicinava al luogo della fornace, vie più cresceva ne’ Teologi assistenti l’ardore del loro santo zelo per ridurla a penitenza: ma l’Iniqua senza impallidire alla vista del patibolo, altro non dicea, che era innocente, e ingiusto il Tribunale, che l’aveva condannata: senza riflettere al gran cumulo delle sue iniquità.
Indi entrò il carro, che portava Fra Romualdo, che doveva prima bruciarsi: ma nello scendere dal carro, fu meraviglioso il gran concorso della gente, che s’affollò intorno ad esso
. […]  pregandolo a pentirsi, e ad aver pietà dell’anima sua. Ma tutti parlavano e con gli occhi, e con la lingua ad un sordo: tenendosi inflessibile senza dar minimo segno di pentimento e commozione

«Questi amorevoli, e pietosi uffizi impedirono per qualche spazio di tempo l’esecuzione del suo bruciamento: e fra tanto portata sul patibolo Suor Geltrude, fu ivi legata al palo con le braccia a dietro e con la faccia di profilo al Baluardo Vega

«[…] Quindi prima le bruciarono i capelli per farle provare un piccolo saggio degli ardori del fuoco; ma essa mostrò più dispiacimento delle chiome, che dell’anima. Indi si diede fuoco alla sopravveste di pece, se forse l’ardore delle fiamme le facessero aprir gli occhi: ma conoscendosi tuttavia ostinatissima, si diede fuoco alle legna della fornace di sotto, che consumando le tavole, sopra delle quali sedeva l’indegna, piombò dentro di essa, e vi restò consumata; spirando l’anima per passare dal fuoco temporale all’eterno

«Mentre bruciavasi l’infame corpo, la Congregazione levò dal suo luogo, ove era inalberata, la Croce Bianca, togliendola dagli occhi degli Infelici: ma si trattenne a partire, aspettando l’esecuzione della sentenza dell’altro. Prima di farlo ascendere sul patibolo, gli fu fatto vedere l’esito dell’Infelice Geltrude per commuoverlo a terrore, e pentimento:[…] invano, poiché né le fiamme vedute lo sbigottirono, né le ammonizioni lo commossero punto: onde si fece ascendere sul patibolo. […] Quindi dal Carnefice fu strettamente legato al palo, e si diede fuoco alla sua sopravveste di pece. Fece egli allora violenti moti per alzarsi: e soffiava nel fuoco, quasi volesse estinguerlo, mentre le fiamme gli bruciavano la faccia: ma non per tanto l’ostinato diede segno di pentimento. Indi si appiccò il fuoco alla catasta di legna nella fornace di sotto: e mentre avanzavano le fiamme, faceva sforzi violentissimi; consumata però ben tosto la tavola, che lo sosteneva, piombò a faccia sotto dal lato destro della stessa fornace: e da quelle fiamme passò l’anima a provar l’atrocità dell’eterne pene, che egli ebbe ardimento di negare. 

«Fu la sua morte infelice circa a mezz’ora della notte, con alto spavento di quanti si trovarono presenti. Seguì il fuoco per tutta la notte, finché si ridussero in ceneri gli indegni cadaveri, che furono poi seminate per quel piano, per essere disperse dal vento».

E noi facciamo un minuto di compassionevole silenzio.

Saverio Schirò

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Saverio Schirò
Saverio Schiròhttps://gruppo3millennio.altervista.org/
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