Nella Palermo antica, come in molte altre parti d’Italia, vi era l’usanza di instradare alla vita monacale i figli non primogeniti degli aristocratici. Questa usanza era in voga per diversi motivi, principalmente economici. Innanzitutto dividere un patrimonio familiare tra due o più figli significava indebolire la ricchezza ed il potere della famiglia, in secondo luogo, nel caso di figlie femmine, concedere più di una dote nuziale sarebbe risultato gravoso anche per le tasche dei casati più facoltosi.
Per quanto impopolare tra i figli dei nobili, questo era l’uso del tempo, e diede come risultato la fondazione di molti conventi in tutta la città. Ma per quanto monaca, ad una giovane aristocratica venivano concessi svariati privilegi, tra cui quello di avere una o due cameriere, un vitalizio da parte delle famiglia (che però veniva elargito alla madre superiora) ed un confessore personale, che aveva il compito di dedicarsi esclusivamente alla sfera spirituale della nobile monaca. Quest’ultima figura era particolarmente ben vista dalle giovani monache, che erano solite usare il loro vitalizio per fare, ai loro confessori, costosi e frequenti regali. Così, oltre ai dolci tradizionali per le feste (Pupi cu l’ova, mustazzoli e biscotti di S. Martino), tali preti godevano anche di conserve, pasticcini, fazzoletti di seta ed oggetti di argento. Bisognava insomma assicurarsi che la regalia fosse molto gradita, e le servitrici che avevano il compito di procurarsi e recapitare il dono, dovevano poi tornare al convento e riferire minuziosamente la reazione dei beneficiari.
Tuttavia, dato il gran numero di monache (a volte anche più di una per famiglia), gli aristocratici palermitani si rivolsero all’arcivescovo Cusani (che era anche viceré e Capitano generale del Regno) per lamentare le ingenti somme di denaro spese dalle loro figlie per fare regali, fino a fargli emettere, nel 1755, un editto che vietava alle monache di elargire doni ed ai confessori di riceverli.
Ma le abitudini sono dure a morire, e il provvedimento fu puntualmente criticato ed eluso, tanto da costringere il re Ferdinando, pressato dalle lamentele dei nobili, ad “accollarsi” tutte le spese delle monache, che poterono così tornare a fare regali sotto il controllo del vescovo. Anche questo però durò poco ed il controllo dei superiori fu presto eluso, riportando presto la situazione allo stato iniziale.
Le “mani bucate” delle nobili suore, erano ben note alle badesse dei conventi, che talvolta cercavano di arginarle. Un esempio è recato da suor Emanuela Cordova, badessa di Santa Maria delle Vergini, che il 29 dicembre 1795, tre giorni prima della sua morte, rinunciò alla sua carica, per risparmiare al convento gli oneri di un lussuoso funerale. Tuttavia, per attaccamento alla loro reverenda madre, le monache respinsero le sue dimissioni e, alla sua morte, spesero la bellezza di 70 onze (un vero patrimonio per l’epoca), per organizzare un lussuoso funerale di tre giorni al quale presero parte le più alte cariche del clero siciliano, insomma uno sfarzo eccessivo per chi aveva vissuto un’intera vita in povertà.