Al giorno d’oggi è fin troppo facile esprimere la propria indignazione nei confronti delle amministrazioni locali e nazionali. Basta andare su qualunque social network per scrivere un commento piccato, contestare una decisione o addirittura inviare un messaggio direttamente al politico contro il quale si vuole protestare.
Nella Palermo del XVIII secolo non era così semplice. A quell’epoca la libertà di parola nel Regno di Sicilia era pressoché nulla, almeno in pubblico, e le espressioni di dissenso nei confronti dei governanti, che fossero sovrani, viceré o pretori cittadini, venivano punite severamente dalle autorità.
Per questo motivo il popolo, sempre più costretto al silenzio, iniziò a far parlare i muri e le statue.
Ecco come.
Quando qualcosa non andava, e accadeva spesso, nottetempo comparivano degli eloquenti cartelli anonimi, che venivano inchiodati sui muri o appesi al collo delle statue collocate in zone strategiche della città. I contenuti dei cartelli erano prevalentemente di natura satirica, anche se a volte appariva anche qualche esasperata minaccia nei confronti del governante di turno.
Le sculture preferite dai cittadini erano quelle del Genio di Palermo, portavoce per eccellenza dei bisogni del popolo, ma anche altre, come il Carlo V di Piazza Bologni o le statue dei Quattro Canti, venivano usate spesso e volentieri a tale scopo.
Impedire questa forma d’espressione popolare era pressoché impossibile. Palermo è piena di statue e nell’oscurità qualunque forma di sorveglianza preventiva sarebbe stata solo uno spreco di tempo e risorse.
Quindi per molti anni non fu insolito, recandosi la mattina alla Fieravecchia (oggi Piazza Rivoluzione), trovare il Genio con un cartello al collo che in pochi versi denunciava storture e malcostumi. Questi tipi di satira, breve e pungente, erano già in voga in altre città Europee, soprattutto a Roma, dove prendevano il nome di Pasquinate.
Le argute composizioni erano vere e proprie opere di poesia popolare, brevi versi in rima che rivelavano spesso una certa abilità nei loro (spesso) autori anonimi. Trattandosi di gesti di protesta, non era insolito che le Pasquinate fossero arricchite da espressioni colorite e vere e proprie “male parole”.
Il Pitrè riporta alcuni esempi di questi versi. In questo caso il contesto è una brutta carestia che colpì la Sicilia nel 1793. Qui l’accusato è il Pretore Cannizzaro, duca di Belmurgo, accusato di essersi arricchito a spese della comunità mentre la gente moriva di fame. A detta del popolo l’unica contromisura adottata dal Pretore fu il predicare fede e speranza in attesa che la carestia fosse passata. A tal proposito un’irriverente composizione fece la sua comparsa tra i vicoli di Ballarò:
Cu la fidi e la spiranza
Un guastidduni ‘un jinchi panza
Preturi Cannizzaru
Ha misu Palermu cu’na canna a li manu.
I versi alludono al fatto che a causa della carestia i fornai avevano diminuito il peso del pane (il guastidduni era appunto una tipica forma di pagnotta) che adesso quindi non sfamava più come prima.
Insomma, la situazione causava non pochi grattacapi ai viceré di quegli anni, tanto da richiedere l’inasprimento delle pene per chiunque fosse stato sorpreso a comporre versi satirici, indipendentemente dal ceto di appartenenza. Il viceré Caracciolo arrivò a far incarcerare tre nobili palermitani, Vincenzo di Pietro, Ugo delle Favare e Gaspare Palermo, per il solo sospetto di aver concepito delle battute umoristiche su di lui.
Addirittura fu promesso un cospicuo premio di 300 onze a chiunque denunciasse in segreto gli autori delle Pasquinate. Sebbene tra il popolo si conoscessero i misteriosi artefici, nessuno andò a denunciarli.
Oggi qualcuno definirebbe questo atteggiamento omertoso, ma grazie a queste mancate denunce, le statue di Palermo continuarono a parlare in difesa del popolo.
Fonti: G. Pitrè – La vita in Palermo cento e più anni fa – Vol. I.
Villabianca – Diari Palermitani