Pochi sanno, perché in pochi lo hanno visto, che a Palermo esiste un luogo di meraviglie nascosto, anzi nascostissimo, situato in una profonda cavità del Monte Pellegrino. L’Abisso della Pietra Selvaggia, con un nome è degno dei migliori romanzi fantasy, al suo interno cela un mondo quasi inesplorato, ornato da stalattiti e altre splendide concrezioni calcaree che da millenni stanno lì, avvolte dall’oscurità più totale.
Ecco la storia di come questo luogo è stato scoperto ed esplorato le prime volte, disvelando i propri segreti ai coraggiosi speleologi che vi si sono avventurati.
La scoperta dell’Abisso della Pietra Selvaggia

La grotta naturale nota come Abisso della Pietra Selvaggia, è una delle più interessanti tra quelle presenti su Monte Pellegrino. La sua esistenza è stata documentata per la prima volta in un articolo del 1923 scritto da Antonio Daneu, uno dei membri del Club Alpino Siciliano, nonché parte della prima squadra di speleologi che nel maggio dello stesso anno aveva deciso di avventurarsi all’interno del profondo Zubbio (termine siciliano che indica l’abisso o baratro) sito in un’area del monte particolarmente brulla, tanto da prendere il nome di “Pietra Selvaggia”.
Scoperta per puro caso l’esistenza di questo luogo, una squadra di speleologi che di recente aveva esplorato la vicina Grotta del Caccamo, si attivò immediatamente per calarsi all’interno di questo nuovo abisso.
Dopo qualche breve preparativo, la prima spedizione ebbe inizio, sebbene i mezzi a disposizione del gruppo fossero alquanto limitati. Con poche corde e una sola lampada al magnesio, la piccola squadra si calò all’interno dei primi due pozzi, fino a quello che credevano essere il fondo, a circa 60 metri di profondità. Questa esplorazione portò alla scoperta di alcune strette gallerie e di molte delicatissime concrezioni calcaree.
Il fatto che tali concrezioni fossero intatte al loro arrivo significava solo una cosa. Era la prima volta che qualcuno si calava all’interno dell’abisso.
La seconda esplorazione avvenne solo 11 anni più tardi, ripercorrendo esattamente il percorso avvenuto nel 1923, ma fu solo nel 1947, che venne alla luce un nuovo interessante sviluppo.
L’esplorazione dell’Abisso
La terza spedizione effettuata dal CAI, ricostituitosi dopo il secondo conflitto mondiale, poteva godere di mezzi tecnologici leggermente più avanzati rispetto a quelli utilizzati le volte precedenti. Fu proprio in questa occasione che il giovane Giovanni Mannino, futuro capostipite della speleologia siciliana, scoprì che rimuovendo alcune rocce franate, era possibile accedere ad un terzo pozzo e scendere ulteriormente all’interno della cavità.
Nei due anni successivi furono rimossi i detriti che bloccavano il passaggio e l’esplorazione continuò fino ad una profondità di oltre 100 metri. Era la prima volta che in Sicilia si raggiungeva un simile obiettivo, ma non era finita qui. L’Abisso della Pietra Selvaggia scendeva ancora!
A questo punto la faccenda si faceva seria. Per procedere ad una simile impresa occorrevano mezzi, uomini e tempo; una simile discesa avrebbe impiegato almeno due o tre giorni, quindi bisognava fare provviste e soprattutto organizzare una squadra di supporto che rimanesse all’imboccatura, per aiutare nella risalita.
La fatidica impresa fu programmata per il dicembre 1950, dopo una lunga ed accurata preparazione. Le operazioni iniziarono con l’allestimento del campo per gli uomini di supporto, che avrebbero dovuto trascorrere giorni e notti all’esterno, con temperature vicine allo zero e un maltempo incessante. Con zappe e mazze si spianò una piccola area tappezzata di rocce acuminate, allo scopo di piantare una tenda e abbozzare una tettoia sotto la quale tenere un falò acceso. Terminate queste operazioni e raccolta un po’ di legna, gli speleologi iniziarono a prepararsi per la discesa.
I mezzi di cui disponevano erano tutt’altro che adeguati; si utilizzavano prevalentemente vecchi sacchi e coperte, oltre a comuni corde da carrettiere lunghe 20 metri e annodate tra loro, senza moschettoni o scalette di alcun genere. Per questa occasione, oltre ad un cavo telefonico per comunicare con l’esterno, solo un pezzo speciale si aggiunse alla normale attrezzatura: un’enorme corda lunga 80 metri e pesante 18 kg, che fu fatta realizzare per l’occasione dai cordari dell’Arenella, ma che tuttavia ben presto si dimostrò inadatta allo scopo, nonché piuttosto scomoda da utilizzare.
Di seguito il racconto delle ultime decisive spedizioni, quella del 1950 e quella finale del 1953.
La conquista dell’Abisso

L’esplorazione dell’Abisso della Pietra Selvaggia iniziò il 28 dicembre 1950 nel primo pomeriggio. Intorno alle 18 il gruppo raggiunse il fondo del primo pozzo. Qui si decise di fare una prima sosta, accendendo un fuoco con legna e ossa recuperati in loco per asciugare i vestiti che intanto si erano inzuppati a causa della pioggia battente. Mangiato un boccone ci si sistemò anche per riposare un po’ in vista dell’impegnativa giornata successiva.
Alle 2 di notte la squadra ricominciò a scendere lungo il secondo pozzo e nel giro di poche ore uomini e attrezzature si ritrovarono all’imbocco del terzo pozzo, pronti ad iniziare l’impresa vera e propria.
L’accesso a questo ambiente era costituito da una strettoia tutt’altro che agevole, dalla quale si riusciva a passare a malapena. Il gruppo fu costretto ad abbandonare su le scorte d’acqua, perché contenute in due grossi bidoni che non riuscirono a passare attraverso l’imboccatura.
Terminata questa discesa e risolto qualche problema di natura logistica, la squadra si preparò a scendere nel nuovo pozzo, individuato solo durante la spedizione precedente.
Dopo aver fatto ingresso in una piccola camera, beandosi di una vista mai goduta prima da nessun altro essere umano, il gruppo si trovò di fronte ad una nuova sorpresa: un baratro buio e profondo di cui non si vedeva la fine.
Si decise di gettare qualche pietra, per stimarne la profondità, tuttavia nessun suono di ritorno fu avvertito, la cavità doveva essere molto più profonda, almeno altri 80 metri, si pensò.
Le attrezzature a quel punto non sarebbero sicuramente bastate, soprattutto perché si trattava di uno strapiombo senza appigli. Non rimase che una soluzione.
Il capogruppo, lo stesso Mannino che aveva scoperto il pozzo anni prima, fu legato ad una corda e calato giù. Forse avrebbe trovato una sporgenza in cui fare tappa prima di continuare la discesa, ma la ricerca non diede buoni frutti.
Lo speleologo dopo una lunga discesa calato a peso morto, non riuscì ad individuare appigli utili, né tanto meno a vedere il fondo. Si beò solo delle magnifiche stalattiti e concrezioni bianchissime che adornavano le pareti da ogni parte, mentre si apprestava a concludere quella comunque storica spedizione.

Terminata l’esplorazione tra mille imprevisti e peripezie, il gruppo fece finalmente ritorno all’aria aperta, dopo due giorni e tre notti di enormi fatiche. La squadra di supporto all’esterno non era messo meglio, per tutto il tempo era stata sottoposta a gelo, pioggia e nevischio, arrivando quasi allo stremo delle forze.
Fu necessario organizzare un’ulteriore spedizione, nel gennaio 1953, per permettere agli speleologi del CAI di Palermo di raggiungere finalmente il fondo dell’Abisso della Pietra Selvaggia, a 202 metri di profondità. Qui il gruppo, grazie alla perfetta conoscenza degli spazi e al supporto di un’attrezzatura più consona, potè infine posare i piedi sul fondo del baratro, scrivendo su una parete i nomi di chi aveva completato quell’impresa: Mannino, Carnesi, Salvia, Bosio, Riccobono.
Ancora oggi quei nomi sono scritti in quella parete di pietra, per ricordare questa storica impresa ai pochi che hanno la fortuna di avventurarsi laggiù.
Fonti: G. Mannino – L’Abisso della Pietra Selvaggia sul Monte Pellegrino – 1953
G. Mannino – L’Abisso della Pietra Selvaggia a sessant’anni dalla conquista
Ho fatto solo il primo tratto.
Ero uno speleologo alle prime esperienze.
Incredibile, non avevo mai sentito parlare di questo posto, eppure conosco benissimo questa zona di Palermo. Grazie per le notizie su Palermo che pubblicate.
Incredibile come pur vivendo a Palermo da sempre non abbia mai saputo dell’esistenza di questo posto. Grazie mille.