Non molti sapranno che a Palermo l’8 maggio 1927, un anno dopo la commemorazione del VII Centenario della morte di S. Francesco d’Assisi, presso il convento dei Cappuccini di Palermo fu inaugurato il primo ambulatorio gratuito per i poveri della città, l’Ambulatorio Francescano, “piccola prodigiosa opera di Carità” come fu definita allora, precursore dei moderni servizi di volontariato medico.
Si trattava di un’istituzione caritatevole d’ispirazione cristiana basata sul volontariato e sulla collaborazione laboriosa delle donne appartenenti al Terz’ordine francescano, le quali con la marchesa Lucia Lojacono vedova Natoli, e grazie all’appoggio dei frati Cappuccini, promossero l’assistenza medica per i numerosi poveri dei quartieri più popolari della città e successivamente anche dei dintorni, i quali non potevano permettersi le cure in ospedale.
Li l’ammalato senza imbattersi in trafile burocratiche sapeva di poter trovare senza alcuna difficoltà assistenza e cure amorevoli, senza discriminazione alcuna né per età, né per malattia, né per condizione in nome della carità di Gesù Cristo. Il motto dell’Ambulatorio era “plus quam possumus” (più di quanto possiamo) e secondo lo spirito francescano, nella struttura venivano considerati poveri quanti vi si presentassero al fine di salvare per tempo la vita a coloro i quali, la ricerca sulla vera identità, avrebbe rubato tempo prezioso.
L’arredamento iniziale dell’ambulatorio, allocato nella “sala degli esploratori” del convento dei Cappuccini comprendeva un tavolo, una panca ed un paravento, mentre i farmaci erano posti in una cesta; ma ben presto ad otto mesi dell’apertura, durante i quali 1855 ammalati ricevettero gratuitamente cure e medicine, anche fuori dai tre giorni stabiliti a settimana, furono individuati, oltre la terrazza ed il corridoio, nuove stanze da adibire a sala d’aspetto, a farmacia, ad infermeria e a sala visite. Anche l’energia elettrica, l’acqua, era fornita dal convento dei Cappuccini, i quali si occupavano molto volentieri dell’assistenza spirituale degli indigenti.
La lotta alla tubercolosi era il punto di forza dell’Ambulatorio, basti dire che la diagnosi e le cure della malattia erano tappe successive alla ricerca degli ammalati, soprattutto dei bambini predisposti alla malattia, che con vero disinteresse le terziarie francescane cercavano nei quartieri più poveri di Palermo. La tubercolosi ossea, ghiandolare e polmonare era allora una malattia molto frequente; ai numerosi ammalati che si rivolgevano all’Ambulatorio Francescano, se non era permesso di accedere nelle case di cura montane istituzionalizzate (Casa del Sole) o marine (Ospizio Marino), oltre alle cure del caso a domicilio le terziarie francescane impartivano indispensabili consigli per l’igiene. Pregevole anche l’assistenza alle donne gestanti e puerpere, ben assistite durante l’allattamento ed aiutate con donazioni di corredini e della necessaria biancheria per affrontare dignitosamente il parto.
Successivamente si rese necessario aprire il reparto dermosifilopatico (1930), otorinolaringoiatra, oftalmico (1936), qui venivano forniti anche gli occhiali.
La direzione sanitaria fu condotta inizialmente, col semplice riconoscimento di una piccola gratifica, dal prof. La Mendola, vicedirettore del consorzio antitubercolare provinciale e per le cure pediatriche dal prof. D’Asaro; prevista la figura del farmacista, dei medici tirocinanti e di sette terziarie francescane giornaliere.
L’opera fu inizialmente sorretta attuando “il sistema economico di S. Francesco” basato sulle elemosine, che fin dal giorno dell’inaugurazione, in cui fu organizzata una festa di beneficenza, permise di raccogliere le prime settemila lire.
La fede nella Provvidenza era alimentata dalla speranza delle elargizioni, che gli invitati alle Feste di Carità, mai rifiutavano anche in considerazione dell’importanza dei concerti musicali eseguiti dagli studenti del Conservatorio, delle rassegne canore della “Schola cantorum” dei Cappuccini, delle conferenze spirituali.
Ben presto il successo dell’Ambulatorio Francescano convinse il Governo nazionale a contribuire con l’erogazione di duemila lire nel primo anno, successivamente l’Opera nazionale della maternità e dell’infanzia con la contribuzione di seimila lire; anche il Municipio di Palermo, il Banco di Sicilia, la Cassa di Risparmio e la Curia Arcivescovile furono sensibili all’opera caritatevole che assicurava oltre le cure mediche, i farmaci, le iniezioni ed le medicazioni, anche il latte per i bambini, il pane e i vestiti puliti, brodo e pollo dopo gli interventi chirurgici, latte caldo e minestra dopo le iniezioni per endovena, per non dimenticare l’attenzione fraterna ed affettuosa, il conforto per chi viveva in condizione di abbandono, di miseria e di sofferenza, come recitava lo Statuto dell’Ambulatorio Francescano.
In questo senso fu e resta encomiabile l’impegno della marchesa Lucia Natoli, che con la credibilità di cui godeva per l’impegno e l’operosità dimostrate, riuscì ad indirizzare all’ambulatorio Francescano la generosità di alcuni enti e di molti concittadini, indispensabile per garantire la distribuzione gratuita delle medicine.
La Marchesa aveva altresì saputo organizzare l’opera delle volontarie francescane individuando per ciascuna di loro il proprio incarico: “superiora, segretaria, vicesegretaria, assistenti, infermiere, aiuto, visitatrici, insegnanti, dispensiere, elemosiniere”.
Trovava quindi un’attuazione pratica l’ideologia della carità della “Principessa Santa”, Santa Elisabetta d’Ungheria, patrona del Terz’ordine francescano femminile, benefattrice dei poveri, degli ammalati degli emarginati, a cui l’Ambulatorio Francescano, la marchesa e le terziarie s’ispiravano.
Nel giorno della festa di S. Elisabetta d’Ungheria e di S. Lucia ai poveri, che poi frequentavano anche l’attigua Cassa dell’Assistenza, la marchesa Lucia Natoli e le terziarie distribuivano sacchetti di legumi, riso, pasta, uova, carne ed in alcune festività anche il pranzo e la “ricreazione” offrendo biscotti, cassate, cannoli. Attraverso la cura del corpo, l’Ambulatorio favoriva la cura delle anime, l’istruzione cattolica, la regolarizzazione dei matrimoni, l’accostamento ai sacramenti e non ultimo l’amor patrio, visto che risulta attivo durante il Fascismo, la II Guerra Mondiale e di certo fino al 1947.
Anna Marfia
(Cfr. S. Vacca, I cappuccini in Sicilia: percorsi di ricerca per una lettura storica, S. Sciascia, Caltanissetta-Roma, 2003, pp. 532-560)