La repressione del gioco d’azzardo nella Sicilia del ‘700

Una piaga sociale antica non ancora debellata

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Più volte, i viceré del Regno di Sicilia si cimentarono, attraverso la promulgazione di specifici “bandi”, a cercare di arginare il diffusissimo fenomeno del gioco d’azzardo. Tuttavia, quasi mai riuscirono completamente nel loro intento.

Il gioco d’azzardo nella Sicilia del ‘700

Nella Sicilia della prima metà del Settecento, infatti, i giochi d’azzardo, assai più diffusi di quanto oggi si possa immaginare, erano riconosciuti come causa di malcostume e di disordini. Perciò, allo scopo di tutelare i cittadini del regno dai rischi che ne derivavano, furono spesso promulgate apposite leggi volte a contrastare o almeno a limitare questa “mala pianta” sempre più dilagante.

Molti furono i tentativi di contrastare la loro diffusione, ma diffide e proibizioni sistematicamente restavano inascoltate e destinate a cadere nell’oblio: generalmente i propositi erano buoni, quello che mancava era, il più delle volte, la forza e l’effettiva volontà dei tutori dell’ordine di far eseguire ciò che veniva disposto nei bandi.

Originariamente il gioco d’azzardo era una passione riservata ai nobili e alle classi più abbienti, le élite che amavano il “pathos” del gioco (quanti patrimoni passarono di mano in una sola sera, quante proprietà svendute per una mano sbagliata!), col tempo divenne una vera e propria piaga, un “brivido” che non risparmiava nessuna classe sociale. Il fenomeno aveva, oltre che evidenti risvolti sociali, effetti pesantemente negativi anche sulla sicurezza pubblica visto che frequentemente tale pratica, oltre a minare la tranquillità della civile convivenza, spesso degenerava in violente risse e “rese dei conti” che molto spesso finivano in un bagno di sangue.

I governi viceregi di Sicilia della prima metà del XVIII secolo, mantennero quasi sempre un atteggiamento repressivo nei confronti del gioco. Di fronte agli inconvenienti che il gioco d’azzardo procurava continuarono a varare leggi anti-gioco sempre più restrittive. Non potevano chiudere gli occhi e girarsi dall’altra parte come in buona sostanza era avvenuto fino ad allora.

Gioco d’azzardo: una repressione non molto efficace

Pertanto nel 1726, regnando sua Maestà Cesarea Carlo VI d’Austria (la Sicilia, regno indipendente, era allora appannaggio della corona imperiale), l’eccellentissimo vicerè Joaquin Fernàndez Portocarrero Marchese di Almenara, nel tentativo di stroncare questo terribile “demone” così tanto diffuso, il 28 di febbraio emetteva un “bando” che, come riferisce Giovanni Evangelista Di Blasi nella sua “Cronologia dei Vicerè”, “con universale applauso fu ricevuto da tutti gli amanti della pubblica felicità”.

Tuttavia si trattò di pura illusione. Infatti, nonostante le misure repressive introdotte dal Portocarrero, il fenomeno continuava ad espandersi e già dopo poco tempo il provvedimento, come spesso avvenne per altre prammatiche di questo tipo, cadde nel dimenticatoio.

Dieci anni dopo la situazione restava sempre quella di prima e così, nel 1736, sotto il nuovo regnante Don Carlo di Borbone, l’allora viceré Don Pedro de Castro Figueroa e Salazar comprese che si trattava di una questione di fondamentale importanza per il Regno e che bisognava legiferare sull’argomento affrontandolo in maniera decisa. Sarebbe stato immorale, a detta del viceré, non intervenire, almeno per cercare di ridimensionare il fenomeno. Così, informato il governo regio, il giorno 1 di febbraio il nobile Don Bernardo Maria d’Alons, pubblico banditore, provvedeva al compimento del suo dovere con “ baniatur per loca publica et consueta…” (rendere pubblico il contenuto di una legge).

Il nuovo provvedimento risultava più rigoroso del “vecchio”, vietava il gioco in quasi tutte le sue forme, ma anche questo, nonostante l’impegno davvero notevole del nuovo viceré, non avrebbe sortito i risultati che egli si attendeva.

Infatti per quanto severo – è bene precisarlo – il bando del Salazar nella sostanza ricalcava quello del suo il predecessore, anche se un po più chiaro e diversamente articolato: i concetti in pratica erano gli stessi ma il secondo bando, oltre a prevedere sanzioni più pesanti, si dilungava di più dando delle precisazioni che probabilmente sfuggirono al Portocarrero nel compilare la sua disposizione.

Il bando cominciava col ricordare “quanto sia stato in ogni tempo considerato per dannoso al quieto vivere delli popoli l’uso delli giuochi, per essere la causa originaria d’infiniti furti, frodi, omicidj, assassinj, ed altri delitti che alla giornata si commettono”.

Diceva testualmente che a chiunque fosse stato sorpreso a giocare d’azzardo in case private, botteghe, magazzini e altri luoghi era riservata “la pena, se nobili o gentiluomini, di pagare onzeduecento per ciascheduno di quelli che giuocheranno ed altre duecento il padrone della casa dove si giuoca, constando di essere sciente (cioè, se fosse stata provata la sua cosciente complicità), della quale pena si acquisti la terza parte al denunziante, il quale si tenerà secreto, e l’altre due terze parti s’intendano acquistate al Regio Fisco, e non essendo abili a pagare detta somma s’intendano incorsi nella pena d’anni tre di castello ed alli “ignobili” anni tre di galera.

Tutto ciò considerato, S.E. ordina e comanda eseguirsi puntualmente il presente bando e non altrimente…

Tra le altre cose il bando emanato da S.E. stabiliva che, nel caso in cui i trasgressori non avessero avuto la possibilità di pagare, il Regio Fisco li condannava a tre anni di “castello” o di “galera”, ma colui che denunciava (cui veniva assicurata la massima “segretezza” sulla sua identità e l’eventuale protezione regia) che, come previsto dal bando, avrebbe dovuto usufruire di un terzo dell’ammenda, rimaneva, ahimè, a mani vuote.

Giochi leciti, giochi illeciti e disparità di trattamento

La proibizione non si limitava a bandire il gioco d’azzardo soltanto nei luoghi chiusi. Infatti, le nuove norme stabilivano che era considerato reato qualsivoglia gioco, lecito, illecito e anche per puro passatempo nelle pubbliche vie, piazze e mercati di tutte le città del Regno. In questo caso la pena – tre anni di remo nelle regie galee – era prevista solo per gli “ignobili”: verosimilmente S.E. il viceré, riteneva inconcepibile che un “cavaliere” si mettesse a giocare nella pubblica via. E comunque nel caso che un nobile fosse stato sorpreso a giocare nella pubblica via di certo, specialmente se apparteneva a qualche casato prestigioso, avrebbe beneficiato della paterna sovrana benevolenza… come al solito.

Giocare a carte PX - gioco d'azzardo

Erano comunque ammessi, nelle case private, dove ovviamente non era facile controllare, giochi per semplice divertimento, come giochi di carte leciti, tarocchi, dama o scacchi a patto che non si ricorresse a inganni, frodi e comportamenti sleali. In questi casi anche i giochi considerati leciti diventavano illeciti e, pertanto, puniti come gli altri.

Quanto alle disparità di trattamento in fatto di pene, secondo la qualità delle persone, e cioè secondo che fossero nobili o “ignobili”, non c’è da sorprendersi. Infatti allora, diversamente da oggi (forse), la legge, non soltanto non era uguale per tutti, ma non lo era neppure per tutti i nobili né per tutti gli altri, difatti, alle pene stabilite in via generale i viceré (solo in pochi furono giusti e imparziali) si riservavano sempre di aggiungere qualcosa a loro totale arbitrio regolandosi, come è facile immaginare, in base a simpatie, antipatie, alla potenza e al prestigio personale o della famiglia dei soggetti interessati.

In conclusione, un tempo le regole contro il gioco d’azzardo c’erano; i viceré, sempre con “paterno zelo”, si preoccupavano di determinarle ma i siciliani si sa, sono sempre stati male avvezzi ad accettare imposizioni dalle autorità. E se aggiungiamo che l’occhio dei tutori della legge spesso allora era miope o si chiudeva facilmente ecco che, puntualmente, i bandi dei nostri viceré contro il gioco d’azzardo, come altri provvedimenti simili, venivano disattesi dai cittadini e lasciavano il tempo che trovavano.

Il gioco d’azzardo oggi

Oggi, dopo quasi tre secoli, le cose sono completamente diverse. Il fenomeno, particolarmente negli ultimi decenni, è aumentato a dismisura e lo Stato, anche con un velo di ipocrisia, mantiene un atteggiamento ambivalente nei confronti del gioco d’azzardo (negli ultimi tempi sono state gradualmente liberalizzate molte attività ludiche) considerato che risulta essere una fonte importante di entrate per le casse pubbliche. D’altra parte, per dirla in pochi essenziali termini, da un lato l’esercizio del gioco d’azzardo, secondo il diritto positivo, nel nostro paese è considerato illegale, da un altro lato invece sempre lo Stato ne gestisce direttamente o indirettamente (attraverso specifiche concessioni) alcune forme.

Inoltre bisogna considerare il fenomeno del gioco d’azzardo irregolare – cioè non sottoposto al controllo dello Stato – totalmente in mano alla criminalità organizzata, che consiste in una fetta considerevole della domanda: un giro d’affari con cifre da capogiro.

La nota più negativa è che si sono creati migliaia di giocatori patologici che si sono rovinati la vita a causa dei “vizio” del gioco. La ludopatia, infatti, è un fenomeno in continua crescita, una vera e propria dipendenza comportamentale assimilabile, per certi versi, alla tossicodipendenza e all’alcolismo con costi sociali ed economici davvero altissimi.

Forse sarebbe necessaria, da parte delle istituzioni, una lunga riflessione su come affrontare questa materia: almeno i viceré di Sicilia nel XVIII secolo ci provarono.

Nicola Stanzione

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Nicola Stanzione
Innamorato di Palermo ed esperto dei suoi palazzi storici, monumenti, usi, costumi e tradizioni

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