Le voci di Strada appartengono classicamente ai venditori ambulanti. Ambulanti perché camminano, perché portano con sé la propria merce e la propongono ai propri clienti con la voce, ora gridata, ora cantata ma sempre caratteristica. Ognuno col suo verso, il suo timbro sempre squillante, simpatico, a volte allegro, ma sempre ben chiaro e accattivante.
Il Pitrè, in un opuscolo stampato nel 1824, ne cita alcuni come a “Za Vanna a murrialisa” che scendeva tre volte a settimana da Monreale a Palermo per vendere le sue uova; e se le sue galline non riuscivano a soddisfare il fabbisogno dei clienti della città, allora, nessun problema, a Za Vanna li chiedeva a Gna Peppa, a Gna Castrenza, a Za Crucifissa, che gliene fornivano quanto bastavano ai suoi “parrucciani”.
Quando a “Za Maddalena” vendeva “coffi e muscalora“, cioè ceste in vimini e ventagli per soffiare il fuoco e i fiammiferi di cera li abbanniava il “cerinaio” .
Attività di strada ormai quasi scomparse, “abbanniate” che invece ancora sussistono nei mercati storici e popolari della città.
U conza lemmi
“U conza lemmi“, o venditore di “piatta e pignati” (piatti e pentole), passava per le strade abbanniando, il suo arrivo. Il nome deriva dal cosiddetto “lemmo“, il contenitore di terracotta usato solitamente per il sugo di pomodoro che costava una cifra e dunque, se rotto, veniva riparato, così come le giare ed i vasi.
Il conza lemme li cuciva col fil di ferro, dopo avere praticato i forellini con un trapano a manovella. Lo stesso faceva con i piatti che si erano disgraziatamente rotti e otturava i buchetti della cucitura con del mastice. In questi piatti risistemati magari non veniva più messa la minestra, ma venivano utilizzati normalmente per le pietanze asciutte. E sì, altri tempi…
U stagnataru
Qualcuno si ricorda di questo mestiere? Eppure fino ad non troppi anni fa, ricordo che ne esisteva uno a piazza Scaffa.
Una volta era un mestiere ambulante e lo stagnataru girava per i vicoli delle città essenzialmente per riparare il pentolame ammaccato o bucato. Usava un martello e un piccolo incudine per raddrizzare la pentola e chiodi per riattaccare un manico rotto. Ma il nome proviene dall’uso di coprire con una patina di stagno le pentole di rame (quarare e quararuni) di modo da non lasciare il cibo a contatto con l’ossido di rame, altamente tossico. La stagnatura si eseguiva mettendo u quararuni sul fuoco fino a portare lo stagno alla temperatura di fusione e poi stricarlo (strofinarlo) all’interno delle pareti che assumevano quel disegno metallico caratteristico e brillante.
U scarparu
Nella Palermo povera del dopoguerra avere un paio di scarpe poteva essere un lusso, per cui prima di buttarle venivano riparate più volte. Ecco allora l’opera preziosa dello scarparo che un tempo le scarpe le faceva, poi le riparava. La prima a danneggiarsi era la suola, e per questo era in uso a volte rinforzarla con lamine di ferro (un po’ come ai cavalli!). Più spesso si metteva qualche rappezzo di cuoio nei buchi con qualche taccitedda o siminzedda (chiodini piccolissimi), o aggiungendo tutta la suola su quella vecchia oppure aggiungendo dei sopra tacchi.
Ricordo quando mettevano la scarpa nella forma in ferro appoggiata sulle cosce, i taccideddi in bocca e ad uno ad uno li fissavano sulla suola col loro martello dalla punta appiattita. Con la lesina (punteruolo) facevano i buchi e riparavano la tomaia quando si staccava dalla suola. Un mestiere non ancora scomparso ma diventato una rarità e forse destinato a sparire nel clima consumistico che preferisce buttare le scarpe piuttosto che ripararle.
Il gelataio ambulante
I gelatai esistono ancora ed esisteranno per sempre! Chi saprebbe fare a meno di una “bella brioscia” col gelato? Specialmente in estate. Ma il gelataio ambulante è un mestiere che ricorda gli anni ‘70, quelli del liceo quando dovevi studiare per gli esami durante il caldo di fine giugno e sentivi dalla strada la cantilena “gelati, ascaretti, fiordifragola” e tra l’incazzatura di sentirti distratto ti veniva la voglia di rinfrescarti il palato. Col camice bianco e il suo carrettino refrigerato, girava le strade popolari della città.
Vendere gelati confezionati era l’evoluzione dei gelatai che pochi anni prima il gelato lo vendevano sfuso, cioè fatto artigianalmente. Lo portavano dentro un grande pozzetto ed i pochi gusti erano sistemati come un arcobaleno dai tanti colori. Classico era chiedere il cono gusto misto e lui con una manovra magistrale spalettava una “cazzolata” di gelato variopinto da collocare sul cono. Alcuni preferivano la charlotta o come si pronunciava a Palermo mangiando la “r”: “challotta”. Era praticamente quello chiamato zatterino, cioè il gelato tra due cialde rettangolari. Per confezionarlo, il gelataio adoperava un apposito attrezzo di metallo, dalla forma rettangolare: inseriva la cialda sotto, poi il gelato, la cialda sopra e il meccanismo compattava il tutto. Il must consisteva nel leccare il gelato senza mordere la “challotta”, pena lo sgretolarsi delle cialde e lo scioglimento del gelato tra le dita.
Il venditore di caffè
Una figura particolare che vale la pena ricordare è il “Venditore di caffè“.
Un tempo il caffè si faceva con la colata: in un recipiente si metteva il caffè macinato e tostato, vi si versava sopra acqua bollente e si lasciava riposare un po’ per poi filtrarlo e servirlo. Succedeva spesso però che per risparmiare si usava meno caffè e più acqua bollente per aumentarne la quantità: ne veniva fuori l’ormai noto “caffè di famiglia”, a cafiata, da noi meglio conosciuto come “Acqua i purpu” (acqua di polpo).
Il venditore di caffè girava per i vicoli alle prime ore del mattino, quando gli uomini andavano a lavorare, con un recipiente di latta a forma di tronco di cono. La parte inferiore veniva alimentata con la brace e nella parte alta era contenuto il caffè che era stato precedentemente preparato a casa. Il grido del venditore di caffè ripeteva come una tiritera café, café, café e di tanto in tanto incalzava con un rafforzativo:”Acqua cavura e cafè, scravagghi ci su!” Un po’ schifosa l’analogia, ma pare volesse sottolineare che il caffè fosse ben nero (come gli scarafaggi), quindi più forte e più buono.
Altri mestieri scomparsi
C’era pure il “Dottore della tosse” che nelle mattine d’inverno percorreva le strade abbanniando a mo’ di cantilena: “Calamilicchi e calamiluna!”. Non erano altro che zucchero caramellato contenuto dentro cilindretti di latta che venivano posti uno a canto all’altro su di una tavoletta di legno appesa al collo e venduti come caramelle per alleviare il catarro mattutino dei fumatori incalliti.
Un altro venditore comune era il venditore di scope, che gridava:” Vinnu scupi di curina! Furtunata cu ci arriva prima! oppure “Scupi bella di curina! Quantu nn’è vinniri stamatina!” a questo grido le donne uscivano a comprare la loro scopa nuova di “ddisa“.
Altra strana figura ormai scomparsa era quella del compratore di capelli. Ogni donna al mattino spazzolava i propri capelli che non buttava, ma li raccoglieva, a volte in buchi delle pareti e al passar del compratore li tirava fuori e in cambio dei propri capelli, poteva avere o palloncini per i propri bambini, o mollette per capelli o pettini stretti che venivano passati tra i capelli per pulirli, a volte anche dai pidocchi. I capelli venivano a loro volta venduti alle fabbriche che ne tiravano fuori parrucche.
Altro personaggio della rassegna di vecchi venditori ambulanti a Palermo è il venditore di focacce, che teneva in testa, in perfetto equilibrio, il contenitore che manteneva al caldo le sue specialità.
In strada si vendeva di tutto, perché prevalentemente in strada si viveva: le case erano piccole ed essenziali. Così tra una chiacchierata con gli amici la domenica ed una passeggiata in centro nelle calde estati, si poteva trovare refrigerio con un fresco bicchiere d’acqua e zammù, dall’acquaiolo, cioè acqua con l’anice e magari un gelato o una grattatella a piazza Massimo.
Tra venditore ed acquirente, poi, si instaurava un rapporto singolare: il venditore dava un prezzo, ma era sempre un po’ troppo per chi comprava, negoziare era anch’essa un’arte che tutte le donne di un tempo sapevano ben fare! E quando il venditore vedeva che non aveva chance diceva:”signura, sintissi ccà!“, la donna usciva e l’affare a questo punto era fatto.
Serafina Stanzione
foto da:
reportagesicilia.blogspot.it
“Le vie d’Italia”, Luglio 1928