Voci di strada: mestieri antichi a Palermo

Accompagnato spesso da piccole nenie, il venditore ambulante è una figura che esiste da tempo immemore

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Ricordate le voci di strada di mestieri antichi, per lo più scomparsi, che si sentivano un tempo nelle vie di Palermo? Durante le torridi estati dell’82, mentre l’Italia giocava e vinceva il Mondiale di Calcio, ricordo ancora l’abbanniata del gelataio ambulante: “ghiaccioli, ascaretti, Fior di Fragola”, che disturbava nei momenti di studio per gli Esami di Maturità. E la mattina presto si udiva la cantilena “Ast’ura v’arrifriscanuuu” del venditore di gelsi… e poi il venditore di sale “Quattru pacchi milli liri“, e poi…

Voci di strada che ormai si sentono sempre meno ma che fanno parte del nostro patrimonio culturale.

Le Voci di strada della Palermo di un tempo

Molte di queste attività di strada sono ormai quasi scomparse, ma le “abbanniate” invece ancora sussistono nei mercati storici e popolari della città. Tuttavia le voci di Strada appartengono classicamente ai venditori ambulanti che annunciano così il loro passaggio. Ambulanti perché camminano, perché portano con sé la propria merce e la propongono ai propri clienti con la voce, ora gridata, ora cantata ma sempre caratteristica. Ognuno col suo verso, il suo timbro sempre squillante, simpatico, a volte allegro, ma sempre ben chiaro e accattivante.

Sono usanze molto antiche, tanto che il Pitrè cita alcuni venditori ambulanti che in qualche modo erano “famosi” a quel tempo, come a “Za Vanna a murrialisa” che scendeva tre volte a settimana da Monreale a Palermo per vendere le sue uova. Se le sue galline non riuscivano a soddisfare il fabbisogno dei clienti della città, allora, nessun problema, a Za Vanna li chiedeva a Gna Peppa, a Gna Castrenza, a Za Crucifissa, che gliene fornivano quanto bastavano ai suoi “parrucciani”.

A “Za Maddalena” vendeva “coffi e muscalora“, cioè ceste in vimini e ventagli per soffiare il fuoco, mentre i fiammiferi di cera li abbanniava il “cerinaio”.

Adesso andiamo a vedere alcuni mestieri di strada scomparsi da anni che esistevano al tempo dei nostri genitori o addirittura dei nostri nonni!

U conza lemmi

voci di strada: il conzalemme

U conza lemmi“,  o venditore e “aggiustatore” di “piatta e pignati” (piatti e pentole), passava per le strade abbanniando, il suo arrivo.  Il nome deriva dal cosiddetto “lemmo“, il contenitore di terracotta usato solitamente per il sugo di pomodoro che costava una cifra e dunque, se rotto, veniva riparato, così come le giare ed i vasi.
Il conza lemme li ricuciva col fil di ferro, dopo avere praticato i forellini lungo i bordi rotti, con un trapano a manovella. Lo stesso faceva con i piatti che si erano disgraziatamente rotti. Poi otturava i buchetti della cucitura con del mastice per rendere la terracotta impermeabile (o quasi!). In questi piatti risistemati magari non veniva più messa la minestra, ma venivano utilizzati normalmente per le pietanze asciutte. E sì,  altri tempi…

U stagnataru

Qualcuno si ricorda di questo mestiere? Eppure fino ad non troppi anni fa, ricordo che ne esisteva uno a piazza Scaffa.
Una volta era un mestiere ambulante e lo stagnataru girava per i vicoli delle città essenzialmente per riparare il pentolame ammaccato o bucato. Usava un martello e un piccolo incudine per raddrizzare la pentola e chiodi per riattaccare un manico rotto. Ma il nome proviene dall’uso di coprire con una patina di stagno le pentole di rame (quarare e quararuni) di modo da non lasciare il cibo a contatto con l’ossido di rame, altamente tossico. La stagnatura si eseguiva mettendo u quararuni sul fuoco fino a portare lo stagno alla temperatura di fusione e poi stricarlo (strofinarlo) all’interno delle pareti che assumevano quel disegno metallico caratteristico e brillante.

U scarparu

Nella Palermo povera del dopoguerra avere un paio di scarpe poteva essere un lusso, per cui prima di buttarle venivano riparate più volte. Ecco allora l’opera preziosa dello scarparo che un tempo le scarpe le faceva, poi le riparava. La prima a danneggiarsi era la suola, e per questo era in uso a volte rinforzarla con lamine di ferro (un po’ come ai cavalli!). Più spesso si metteva qualche rappezzo di cuoio nei buchi con qualche taccitedda o siminzedda (chiodini piccolissimi), nelle scarpe più rovinate si potava aggiungere tutta la suola su quella vecchia mentre era classico aggiungere dei sopra tacchi su quelli troppo consumati.

Ricordo quando mettevano la scarpa nella forma in ferro appoggiata sulle cosce, i taccideddi in bocca e ad uno ad uno li fissavano sulla suola col loro martello dalla punta appiattita. Con la lesina (punteruolo) facevano i buchi e riparavano la tomaia quando si staccava dalla suola. Un mestiere non ancora scomparso ma diventato una rarità e forse destinato a sparire nel clima consumistico che preferisce buttare le scarpe piuttosto che ripararle.

Gelataio ambulante

voci di strada: gelataio ambulante

I gelatai esistono ancora ed esisteranno per sempre! Chi saprebbe fare a meno di una “bella brioscia” col gelato? Specialmente in estate. Ma il gelataio ambulante è un mestiere che ricorda gli anni del liceo quando passava nell’ora della ricreazione e tutti attorniavano l’ape dove era tenuto “a ghiaccio” il pozzetto dei gelati.

Lo ricordo ancora col camice bianco e il suo carrettino refrigerato, mentre girava le strade popolari della città.
Vendere gelati confezionati era l’evoluzione dei gelatai che pochi anni prima il gelato lo vendevano sfuso, cioè fatto artigianalmente. Lo portavano dentro un grande pozzetto ed i pochi gusti erano sistemati come un arcobaleno dai tanti colori. Classico era chiedere il cono gusto misto e lui con una manovra magistrale spalettava una “cazzolata” di gelato variopinto da collocare sul cono.

Alcuni preferivano la charlotta o come si pronunciava a Palermo mangiando la “r”: “challotta”. Era praticamente quello chiamato anche zatterino, cioè il gelato tra due cialde rettangolari. Per confezionarlo, il gelataio adoperava un apposito attrezzo di metallo, dalla forma rettangolare: inseriva la cialda sotto, poi il gelato, la cialda sopra e il meccanismo compattava il tutto. Il must consisteva nel leccare il gelato senza mordere la “challotta”, pena lo sgretolarsi delle cialde e lo scioglimento del gelato tra le dita.

Il venditore di caffè

Una figura particolare che vale la pena ricordare è il “Venditore di caffè“. Oggi non esiste da “secoli”, ne hanno ricordo solo le persone “grandi” come nonni o genitori.
Un tempo il caffè si faceva con la colata: in un recipiente si metteva il caffè macinato e tostato, vi si versava sopra acqua bollente e si lasciava riposare un po’ per poi filtrarlo e servirlo. Succedeva spesso però che per risparmiare si usava meno caffè e più acqua bollente per aumentarne la quantità: ne veniva fuori l’ormai noto “caffè di famiglia”, a cafiata, da noi meglio conosciuto come “Acqua i purpu” (acqua di polpo).

Il venditore di caffè girava per i vicoli alle prime ore del mattino, quando gli uomini andavano a lavorare, con un recipiente di latta a forma di tronco di cono. La parte inferiore veniva alimentata con la brace e nella parte alta era contenuto il caffè che era stato precedentemente preparato a casa. Il grido del venditore di caffè ripeteva come una tiritera café, café, café e di tanto in tanto incalzava con un rafforzativo: “Acqua cavura e cafè, scravagghi ci su!” Un po’ schifosa l’analogia, ma pare volesse sottolineare che il caffè fosse ben nero (come gli scarafaggi), quindi più forte e più buono.

Altre voci di strada di mestieri scomparsi

Il “Dottore della tosse” nelle mattine d’inverno percorreva le strade abbanniando a mo’ di cantilena: “Calamilicchi e calamiluna!”. Non erano altro che zucchero caramellato contenuto dentro cilindretti di latta che venivano posti uno accanto all’altro su di una tavoletta di legno appesa al collo e venduti come caramelle per alleviare il catarro mattutino dei fumatori incalliti.

Un altro venditore comune era il venditore di scope, che gridava:” Vinnu scupi di curina! Furtunata cu ci arriva prima! oppure “Scupi bella di curina! Quantu nn’è vinniri stamatina!a questo grido le donne uscivano a comprare la loro scopa nuova di “ddisa” (saggina, in italiano).

Altra strana figura ormai scomparsa era quella del compratore di capelli. Ogni donna al mattino spazzolava i propri capelli che non buttava, ma li raccoglieva, a volte in buchi delle pareti e al passar del compratore li tirava fuori e in cambio dei propri capelli, poteva avere o palloncini per i propri bambini, mollette per capelli o pettini stretti che venivano passati tra i capelli per pulirli, a volte anche dai pidocchi.
Per quanto posso immaginare, i capelli recuperati venivano a loro volta venduti alle fabbriche che ne tiravano fuori parrucche.

Un altro personaggio della rassegna di vecchi venditori ambulanti a Palermo è il venditore di focacce, che teneva in testa, in perfetto equilibrio, il contenitore che manteneva al caldo le sue specialità e attraversava i vicoli del centro offrendo gli antenati della “rosticceria palermitana”.

Insomma, per strada si vendeva di tutto, perché prevalentemente in strada si viveva: le case erano piccole ed essenziali. Così tra una chiacchierata con gli amici la domenica ed una passeggiata in centro nelle calde estati, si poteva trovare refrigerio con un fresco bicchiere d’acqua e zammù, dall’acquaiolo, cioè acqua con l’anice e magari un gelato o una grattatella a piazza Massimo.

Serafina Stanzione

foto da:
reportagesicilia.blogspot.it
“Le vie d’Italia”, Luglio 1928

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Serafina Stanzione
Serafina Stanzione
Staff member. Redattrice, responsabile e curatrice della sezione dedicata agli Eventi a Palermo

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