Palermo e la passione per il gioco con le carte

Il gioco con le carte: storia e curiosità

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La passione per il gioco con le carte è molto antica e Palermo ne è testimone sin dal XV secolo, quando le carte si chiamavano naibi (dallo spagnolo naipe che significa proprio carta da gioco) ed erano un gioco destinato ai ragazzini. Ben presto da quelle figure si svilupparono i tarocchi e da lì le carte che si sono tramandate così come le conosciamo noi.
Di quell’epoca abbiamo i nomi di alcuni fabbricanti di carte a Palermo, ma è dal 1610 che la maestranza dei cartari divenne tanto numerosa da chiedere che venissero approvati gli Statuti che regolavano l’accesso alla corporazione.

Cartari di Palermo

Ogni corporazione di maestranze si concentrava in zone specifiche della città e i toponimi ancora esistenti ce ne tramandano la memoria: via dei Calderai, degli Schioppettieri, dei Chiavettieri, dei Maccheronai, dei Zimmellari… ne sono alcuni esempi.  I Cartari avevano le loro botteghe nella zona del Capo, nei pressi di via Beati Paoli, ma dalla seconda metà del 700 si spostarono nel cosiddetto piano dei Cartari, vicino piazza Borsa. Oggi la via e l’arco dei Cartari ne testimoniano la presenza. 

Come erano fatte le carte da gioco?

La materia prima veniva importata da Venezia o Genova: mazzi di carte già pronte per essere dipinte, oppure risme di carta e cartoni da stampare e poi ritagliare. Per la stampa si usavano i torchi in legno, mentre per la colorazione, fatta a mano, si usavano pennelli e acquerelli. Alcuni mazzi di carte venivano stampati solamente in due colori: rosso e verde. Venivano poi lisciate, inscurite col fumo da un lato e passate di gomma arabica per mantenere una certa lucentezza. Manufatti di un certo rilievo se consideriamo che ne sono rimasti esemplari datati del 1639!
Conosciamo i nomi di alcuni fabbricanti del XV e XVI secolo, tuttavia il commercio dovette diventare piuttosto fiorente se pensiamo che nel 1700 un mazzo di carte costava 19 tarì, che era una bella cifra!

Le carte da gioco

Ogni regione adottava dei segni alquanto simili per indicare i semi. In Sicilia quelli più diffusi erano del tipo spagnolo: Oro o denari, mazze o bastoni, coppe e spade con i disegni che conosciamo nelle due varianti “siciliane e napoletane”. Durante particolari momenti storici, vennero adottate temporaneamente alcune figure per assecondare le politiche del tempo: Faraoni, Garibaldi, Mussolini e fasci littori presero il posto di Re, Cavalli o delle mazze.
L’ironia popolare faceva il resto, per cui ogni carta aveva il proprio soprannome che cambiava a seconda del luogo e del tempo, benché si ritenesse che gli inventori fossero stati i carcerati della Vicaria che gioco forza trascorrevano molto tempo a giocare a carte. L’Asso di denari era soprannominato ora “il rosso le uova ”, o“ il rosso i Ficarazzi ”, e più recentemente“ il muro ”. L’ asso di bastoni alludeva sempre al simbolo fallico, mentre le figure disegnate su alcune carte gli davano il suo soprannome: la ” casina” era il tre di coppe, il quattro di coppe con i duellanti era soprannominato Ciccu Paulu e Cicireddu . Il cavallo veniva spesso chiamato ” il generale ” e il reil patrono della casa ” perché è la figura più importante del mazzo. Questi sono solo alcuni esempi, perché sono sicuro che molti altri sono conosciuti in diverse parti della città o nei paesi vicini.

Il gioco con le carte di una volta

Gioco con le carte PX

Le origini di alcuni giochi di carte si perdono in un passato remoto difficile da recuperare: probabilmente derivano dalla Cina e dagli Arabi. I modi di giocare sono cambiati nel corso dei secoli e molti di questi li conosciamo solo per nome, per lo più perché vengono citati nei bandi dei Viceré come vietati perché considerati d’azzardo.  Ne elenchiamo alcuni del XVII e XVIII secolo:

Giochi considerati d’azzardo e dunque espressamente proibiti: bassetta, biribisso, primiera, goffo, stopo con invito, trenta e quaranta, cartetta, banco fallito, regia usanza o tuppa, faraone, paris e pinta, passadieci, sette a otto, scassa quindici, zecchinetta. 

Giochi permessi o tollerati: Tarocchi, tresette, riversino, picchetto, ganellini, scarcinate, calabresella, gabella, a chiamare.

Il gioco con le carte nella Palermo del ‘700

Giocare a carte è stata una prerogativa di ricchi e poveri in ogni tempo. E le regole dell’azzardo erano le medesime: ovviamente cambiava il valore delle puntate. Ciò nonostante allora come oggi c’erano numerose persone che si rovinavano per le grosse perdite al gioco.
Questo il motivo per il quale erano banditi numerosi giochi di carte e le pene per i trasgressori erano molto pesanti, fino a diversi anni di “servizio alle galee” come rematori!
La chiesa, in egual misura condannava questo vizio, considerato un grave peccato. Ma come controllare? Per lo più i tavoli da gioco venivano organizzati nelle case private dei nobili oppure nei caffè, nei saloni dei barbieri o nelle bettole dei quartieri più malfamati della città.
Durante le grandi feste o i ricevimenti della nobiltà era d’obbligo “fare tavolino”, cioè organizzare dei tavoli da gioco al quale partecipavano Vicerè, Pretori e signori e perfino molte nobildonne. 

giocatori di carte PX

Ecco quello che racconta il Pitrè nel suo resoconto sulla passione dei palermitani per il gioco a carte: “Il giuoco era fascino morboso, ossessione. Lunghe ore del giorno, intere notti, rimanevano attaccati alle sedie: gli occhi avidamente fissi sui gruzzoli di monete che facevano monticelli nel centro; lo spirito tremebondo al muovere di una carta, dalla quale dipendeva la sorte loro, della loro famiglia. Il ricco d’oggi poteva non esserlo più domani; senza testamento, l’ultimo giocatore diventare il facile erede d’un feudo. L’eguaglianza di ceto regnava sovrana tra disuguali per censo; ogni cuore si chiudeva alla pietà, ed il dolore d’uno era la gioia d’un altro”.
Non molto diverso dalla stessa ossessione che vivono i gioco-dipendenti dei tempi più recenti!

Uno dei giochi che più andava di moda era il biribissi un gioco d’azzardo a metà tra la tombola e la roulette: su un tavoliere erano segnati i numeri da 1 a 70, e da un sacchetto venivano estratti i bussolotti. I giocatori puntavano una somma su uno o più numeri e chi aveva puntato sul numero estratto riceveva 64 volte la posta.
E più o meno come avviene ancora oggi, l’illusione di potere vincere accecava i più ostinati che puntata dopo puntata perdevano a volte grandi fortune. 

E le perdite per quanto ingenti dovevano essere pagate, pena l’onore che nessuno voleva perdere, e così nel tentativo vano di recuperare i soldi persi l’accanimento diventava una vera e propria ossessione da cui il detto “megghiu perdiri ca straperdiri” che ancora oggi è rimasto come proverbio popolare.

Saverio Schirò

Fonti: 

  • Roberto Volpes, Chiacchiere e fatti nella Sicilia che fu, ed Stass Palermo 1978
  • Giuseppe Pitrè, La vita a Palermo cento e più anni fa, vol I, Barbera Firenze 1944
  • F. Lo Piccolo, Giochi di carte e cartai in Sicilia dal XV secolo al XX secolo, in Kalòs Anno 14 n° 4 – ottobre-dicembre 2002, Palermo
  • Immagini by pixabay.com

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Saverio Schirò
Saverio Schiròhttps://gruppo3millennio.altervista.org/
Appassionato di Scienza, di Arte, di Teologia e di tutto ciò che è espressione della genialità umana.

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