Al giorno d’oggi, l’istituzione del fidanzamento è completamente cambiato rispetto al passato: due persone che si piacciono non hanno difficoltà ad approcciare la conoscenza, né tanto meno esistono più degli schemi prefissati; basta un gioco di sguardi di pochi attimi, uno dei due che per primo faccia una mossa e via libera ad incontri più o meno romantici.
Talvolta non avviene nemmeno una conoscenza, si va direttamente all’intimità. Del resto essere fidanzati e successivamente sposati non è più “conditio sine qua non” per l’ingresso in società. Tanti uomini e donne riescono a realizzarsi nella vita anche senza una persona accanto.
Non so se sia meglio o peggio rispetto agli anni in cui i miei genitori si sono conosciuti, fatto di regole non scritte che tutti conoscevano perché tramandate come uso e costume, ma di sicuro si è passati da un eccesso all’altro.
Dobbiamo considerare che a Palermo e un po’ in generale al sud il fidanzamento rappresentava simbolicamente il raggiungimento di una tappa importante nella società di qualche anno fa, voleva significare il passaggio a tutti gli effetti all’età adulta. Quando si era zitati ci si poteva concedere il lusso di ascoltare discorsi vietati fino a quel momento, essere trattati a tutti gli effetti da adulti.
L’uomo poteva cominciare a pensare a come provvedere alla famiglia che di lì a poco avrebbe avuto e questo lo avrebbe riempito di orgoglio perché avrebbe adempiuto ad una delle tappe importanti della vita.
E poi guai per la ragazza a non trovare lo zito, sarebbe costato un appellativo pesante che l’avrebbe apostrofata per tutta la sua vita come “zitella” o anche con un espressione che richiama la volgarità “taralla“.
Dunque da quando si diventava “signorina” cioè dalla comparsa del menarca si iniziava la spasmodica ricerca dello zito.
Avveniva, triste verità, che la ragazza al fine di sfuggire a tutti i costi all’appellativo sopracitato, si accontentasse di chiunque le facesse la proposta.
Ma come avveniva la conoscenza?
Molto spesso non avveniva direttamente, ma attraverso una persona in comune, un amico o un parente che faceva ‘u ruffiano, e permetteva l’approccio. Il ragazzo cominciava a “tastari u pusu” (letteralmente “tastare il polso”) cioè cercava di capire se anche la ragazza potesse essere interessata all’approccio e lo faceva cercando di passare davanti casa di lei o cercando di capirne i movimenti, seguendola, quasi come uno stalker, diremmo al giorno d’oggi. Se la ragazza ricambiava le attenzioni, gli sguardi, era fatta, mandava a dire attraverso ‘u ruffiano, ma a volte anche direttamente che pretendeva un incontro con i genitori di lei per formalizzare la conoscenza e “accasarsi”.
Quando i genitori riconoscevano nel ragazzo (dopo aver preso varie informazioni) un “buon partito” per la figlia, stabilivano un incontro durante il quale avveniva una prima conoscenza e venivano spiegate le intenzioni dei futuri fidanzati.
Successivamente i genitori di lei pretendevano un altro incontro più ufficiale.
“‘u spiamientu ri matrimoniu”
Lo zito a questo punto, prima della data dell’incontro ufficiale con i futuri suoceri, doveva munirsi di anello di fidanzamento che rappresentava la promessa di matrimonio nei confronti non solo della zita, ma anche dei suoceri, proprio così perché da quel momento in poi lo zitamento diventava una rapporto a 6: i 2 ziti e i 4 genitori.
Seguiva un altro incontro durante il quale i genitori della ragazza andavano a “rumpiri u scaluni” al domicilio del ragazzo. L’ espressione è probabilmente assimilata a quella di rompere il ghiaccio, togliendo così dall’imbarazzo generale. I genitori di lei regalavano, appunto a nome della zita “‘u fermanellu” l’anello di fidanzamento maschile, in genere con un piccolo brillante.
I ragazzi erano a questo punto ufficialmente “ziti” . C’erano casi in cui per festeggiare questa unione si organizzava una festa di fidanzamento pomposa, anche in sala, con tanto di bomboniera e confetti verdi (infatti il colore verde sancisce l’ augurio della vita che verrà), dove si invitavano i parenti per fare avvenire la conoscenza di tutti i componenti della famiglia di lei e di lui, il riconoscimento dei parenti.
La storia dei due ziti aveva inizio! Tutto doveva essere sempre sotto la vigile attenzione dei genitori, soprattutto della madre della zita che sorvegliava affinché tutto andasse per il verso giusto!
La donna, secondo il pensiero del tempo, aveva tutto da perdere: onore, reputazione e verginità. Tutto ciò doveva essere preservato fino al giorno del matrimonio, in caso contrario una ragazza che avesse perso anche solo uno dei tre requisiti non sarebbe stata più donna da marito, non avrebbe più avuto la possibilità di trovare un nuovo fidanzato in futuro e sarebbe stata condannata per sempre alla condizione di zitella o di disonorata.
L’uomo, invece, si allontanava dalle sue amicizie maschili, perché quasi ogni sera doveva presentarsi a casa della ragazza per “fare lo zito“, in genere dopo cena.
I due fidanzatini non potevano stare seduti accanto in quanto nessun contatto fisico doveva avvenire affinché la ragazza arrivasse completamente illibata al matrimonio.
Di tanto in tanto, nella misura stabilita dalle due famiglie, la ragazza andava a casa dello zito, solitamente per il pranzo della domenica, a fare visita alla suocera e anche lì si doveva fare attenzione che i due ragazzi stessero a dovute distanze. Non mancavano episodi in cui la suocera si accorgeva di situazioni a suo dire poco idonee e a quel punto la zita veniva accusata alla consuocera e tutto veniva ridimensionato.
Le uscite durante il fidanzamento
Come si può ben immaginare i due ziti non potevano uscire insieme da soli.
Dovevano essere sempre accompagnati da un membro della famiglia di lei, un fratello, una sorella o addirittura dalla suocera che camminava dietro i due controllando che le mani stessero al loro posto!
Questa situazione, perpetrata per anni, faceva arrivare, i due ziti, stanchi ma desiderosi al matrimonio.
Non mancavano durante il periodo di zitamento discussioni che talvolta riguardavano poco i ragazzi, ma spesso le famiglie implicate.
La Dote del fidanzamento
La famiglia della ragazza doveva provvedere alla dote casalinga, lenzuola, asciugamani, e a tutto il corredo per casa, che in parte era già stato comprato dalla famiglia di lei molto prima dello zitamento (talvolta già dai primissimi anni di età della futura sposa).
La famiglia di lui o anche lo zito, qualora ne avesse avuto le possibilità economiche, doveva provvedere all’affitto o acquisto della casa e al mantenimento della famiglia futura, perché la donna non doveva lavorare, in quanto ritenuto inappropriato, ma doveva essere dedita, dopo il matrimonio, alla casa e alla famiglia.
La Fuitina
Il percorso per arrivare al matrimonio era difficile da sostenere e i due ziti non sempre avevano modo di conoscersi a fondo. Capitava quindi che i due non riuscendo a resistere alle privazioni amorose decidessero di fare la “fuitina“ una fuga d’amore durante la quale veniva consumato il matrimonio prima del previsto. La frittata era fatta e i due non potevano più vivere in case separate, ma dovevano affrettare un matrimonio riparatore facendo avvenire tutto nel più breve tempo possibile.
Coloro che resistevano alla tentazione, invece, giungevano al matrimonio così come volevano i genitori. La ragazza da illibata diveniva donna a tutti gli effetti e doveva mostrare alla suocera i panni della consumazione del matrimonio e della prova dell’onore di lei, in caso contrario la ragazza poteva prendere l’appellativo di “sdisanurata” voleva dire che la ragazza si era già concessa a qualcun altro e il matrimonio poteva essere sciolto.
Quando i fidanzati giungevano al matrimonio, come da regolamento imposto, capitava spesso dopo che i due non fossero affini sia caratterialmente, ma anche nell’intimità, nella maggior parte dei casi gli ziti divenuti ormai coniugi si sopportavano a vicenda e mai si sarebbero separati per evitare il disonore e le maldicenze di amici e parenti.
Triste e magra verità di una realtà, per fortuna, ormai lontana.
Erina Marino
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Una ricostruzione deliziosa e divertente di un tempo non ancora troppo lontano! Bravissima.
Per precisare aggiungerei che il cosiddetto “ruffiano” veniva anche conosciuto come “u paraninfu” quando era assimilabile ad una professione vera e propria.
E che l’abitudine imposta di uscire accompagnati da una sorella più piccola o da una delle suocere veniva etichettato come uscire “ca cura” (con la coda) che è proprio una affermazione letterale.