A Palermo esiste un noto slargo posto alla fine dell’odierna via Cavour che porta il nome di Piazza XIII Vittime. Qui c’è un obelisco in marmo, ben più antico del grande monumento metallico che adorna oggi il centro della rotonda, posto a memoria di un evento storico che fu il preludio allo sbarco dei Mille.
Questa storia ebbe inizio la notte del 3 aprile 1860, quando un gruppo di rivoltosi si riunì per dare vita a quella che sarebbe passata alla storia come la Rivolta della Gancia.
Nei giorni precedenti, il gruppo di comuni cittadini, con a capo un fontaniere di nome Francesco Riso, aveva iniziato segretamente ad ammassare armi e munizioni nel convento della Gancia, grazie anche all’appoggio dei frati minori.
Proprio da qui, all’alba del 4 aprile si sarebbe iniziata una marcia armata volta a liberare Palermo dal governo borbonico.
Tuttavia le cose non andarono come previsto. Il tanto sperato effetto sorpresa, necessario affinché l’esercito non stroncasse l’insurrezione sul nascere, fu annullato dalla soffiata di un frate, Padre Michele da Sant’Antonino. Questi avvertì segretamente il capo della Polizia di Palermo, Salvatore Maniscalco, il quale ebbe tutto il tempo di radunare un reggimento di soldati che fece irruzione nel convento sbaragliando i rivoltosi. Una ventina di essi morì nello scontro, alcuni furono feriti gravemente (tra cui lo stesso Francesco Riso che sarebbe morto circa un mese dopo in ospedale) e tredici furono fatti prigionieri.
Solo due ne uscirono illesi, grazie ad uno stratagemma. Approfittando degli scontri si nascosero sotto un mucchio di cadaveri, riuscendo poi a fuggire da un buco praticato sulla parete esterna del convento, da allora noto come “Buca della Salvezza”. Tale episodio fu possibile grazie all’aiuto delle colorite donne della Kalsa, le quali inscenarono una rissa per distrarre i soldati rimasti a guardia dell’edificio.
I tredici rivoltosi arrestati durante l’insurrezione furono naturalmente condotti al Castello a Mare per la detenzione, in attesa di essere processati. Tuttavia nei giorni successivi alla rivolta l’aria in città era piuttosto tesa e l’esercito borbonico temette nuove rappresaglie. Per questo motivo, si decise di fornire una punizione esemplare che fungesse da monito per il popolo.
I tredici prigionieri (tra i quali era presente anche il padre di Francesco Riso, Giovanni), furono bendati e condotti presso un bastione di Porta San Giorgio, con l’aiuto di un gruppo di passanti scelti a caso per guidarli e sorreggerli. Qui furono fatti inginocchiare di fronte al plotone d’esecuzione, che con due raffiche ne uccise dodici.
Il tredicesimo era un pizzicagnolo (oggi diremmo salumiere) di nome Sebastiano Camarrone, il quale miracolosamente sopravvisse all’esecuzione. Secondo le regole di guerra questo gli avrebbe dato diritto alla grazia, tuttavia si decise di non mostrare pietà. Gli ufficiali si avvicinarono e gli strapparono dal collo un crocifisso e un sacchettino di oggetti sacri (forse perché ritenuti responsabili dell’evento miracoloso), poi ordinarono di sparare una terza raffica, che questa volta lo uccise.
I tredici corpi crivellati furono ammassati a forza in quattro casse di legno e poi condotti al cimitero dei Rotoli, visto che per portarli a Santo Spirito si sarebbe dovuta attraversare la città, rischiando di far scoppiare (metaforicamente) quella polveriera.
Intanto il capo della Polizia Maniscalco, aveva isolato il ferito Francesco Riso in ospedale, cercando di estorcergli informazioni in cambio della vita del padre (che invece era già stato giustiziato da parecchi giorni). Per quanto probabilmente Riso non abbia mai tradito i suoi compagni, a Palermo iniziarono a circolare voci insistenti che dicevano il contrario. Queste informazioni, forse messe in giro dai fedelissimi del governo borbonico, fecero sì che Francesco Riso venisse abbandonato dai suoi amici, stroncando così gli ultimi focolai di quella strenua resistenza.
Questa storia così come tante altre è bella, avvincente e tragica. Mi fa pensare a mio padre che mi spiegava gli avvenimenti di Palermo e proprio in questo caso ero affascinata da questa piccola buca da dove non credevo potessero uscire delle persone. Grazie per questo bel ricordo e per la narrazione.
Amo tutta la storia e quella siciliana, moderna e contemporanea, in particolare. Ho avuto anche il privilegio di essere per qualche anno allievo all’università di Francesco Renda, autore della più grande opera di storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri. Vi ringrazio quindi per l’ottimo lavoro che svolgete con i vostri interessantissimi articoli. Il professor Renda ci diceva sempre che lo storico deve usare rigore “scientifico” nel reperire le fonti ma anche la massima semplicità nel “raccontare” la storia e i suoi aneddoti. Mi pare che questo sia quel che fate voi. Complimenti!
Grazie Maurizio, facciamo del nostro meglio per ricostruire gli eventi storici di Palermo per poi raccontarli in modo esaustivo e lineare, per quanto non sempre sia facile. I complimenti ci danno sempre i giusti stimoli e la conferma che stiamo facendo un buon lavoro.
Grazie ancora e continua a seguirci.