Sono molti i modi in cui chiamiamo i bambini in Sicilia. Dipende dalle diverse province dell’isola dove il termine bambino cambia, pur mantenendo lo stesso significato. In realtà esisterebbe una traduzione “letterale” di bambino: bambinu o bamminu, ma non viene usato mai perché nella sua accezione vezzeggiativa, “u bammineddu” viene inteso Gesù bambino per cui… su figghi ma…!
Generalmente diciamo “bambino” a tutti i piccoli, dalla nascita fino alla giovinezza, benché, nella lingua italiana si adoperano termini diversi a seconda dell’età. Ad esempio, “neonato” nel primo anno, o “infante”, per quanto sia meno comune; “bambino” fino alla pubertà, quindi “ragazzo”, poi, “giovane” (adolescenza) e infine “adulto”, secondo le fasi dell’età.
Anche la lingua siciliana usa termini diversi a seconda dell’età dei bambini, ma i limiti sono più sfumati, per cui, spesso si usa lo stesso termine indipendentemente dall’età del piccolo e questo può generare un po’ di confusione.
Facendo una ricerca nei diversi dizionari siciliani, il termine più comune in tutta la Sicilia di chiamare i bambini è picciriddu, o picciliddu in alcuni paesi. Il termine sembra venire da picciulu, il cui vezzeggiativo è picciuliddu, da cui picciliddu e dunque picciriddu. Benché in Sicilia “picciuli” sono chiamati i soldi, il termine anticamente indicava tutto ciò che è piccolo, per cui ben si addice ai bambini.
Così a Palermo e nei dintorni, mentre in altre Province il bambino viene chiamato in altri modi: per esempio “carusu” nella Sicilia orientale e addevu o addrevu dalle parti di Agrigento. Vediamo perché.
Non è chiaro da dove provenga il termine “carusu” adoperato nel catanese per chiamare i bambini, anche se, per precisione, carusu dovrebbe essere già un ragazzo, al limite, ragazzino (picciotto e picciutteddu a Palermo), ma, l’abbiamo detto, i limiti sono sfumati. Forse viene dal latino Caret usum, che significa “che manca di ragione” oppure da carus, cioè “cosa amata”.
Il termine ha avuto una connotazione particolarmente dolorosa in relazione ai “carusi di Sicilia“, una delle pagine più tristi della storia siciliana, a cavallo tra Ottocento e Novecento e fino alla fine degli anni ’70, quando nelle solfatare, i ragazzini siciliani venivano impiegati ad un lavoro inumano nelle miniere.
La parola addevo (o addrevu) per indicare i bambini viene da “allievo” nella sua accezione di qualcuno da allevare, per cui il significato originale doveva riferirsi inizialmente al neonato o lattante, ma per estensione vengono chiamati addevi tutti i bambini fino alla prima adolescenza.
Naturalmente ci sono poi i modi familiari così personali di riferirsi ai bambini che possono cambiare da paese a paese e addirittura da famiglia a famiglia.
Ed ecco che i neonati sono tutti nutrichi, ma quando crescono qualcuno li chiama figghioli (figlioli), altri criaturi (creature), u nicu o nicareddu (il piccolo), u masculiddu (maschietto) quando si vuole distinguerlo dalla sorellina femminuccia (a fimminedda).
Modi di chiamare i bambini in Sicilia e a Palermo
Non molto differentemente dalla lingua italiana, dunque. Invece esiste una maniera tutta siciliana e palermitana di riferirsi ai bambini, o al mondo dei bambini.
Così un bambino sarà definito ‘nnuccenti (innocente) per dire che non ha la malizia di compiere azioni riprovevoli e se qualcosa l’ha combinata non bisogna essere troppo severi.
Tuttavia, sono tante le debolezze mal tollerate nonostante la giovanissima età: così se un bambino stenta a staccarsi dalle cure materne viene definito mammulinu o mugnulusu fino a diventare mùddiu, cioè noioso perché vuole stare sempre in braccio.
Se poi piange senza motivo apparente, ecco che diventa picchiusu e questo è poco tollerato, specie se è masculiddu!
Se è buono, viene definito Ancileddu (angioletto) e quando non si lamenta viene sottolineato col “unni si posa, sta!” (non si muove da dove lo metti).
Comunque, la vivacità e l’intraprendenza dei piccoli viene lodata, soprattutto nei maschietti, ma è un retaggio della cultura maschilista che lentamente sta abbandonando le nuove generazioni.
Per cui, se un bambino non è tirilluso (o turillusu), cioè capriccioso e attaccabrighe tanto da diventare fastidioso, ecco che se ne combina qualcuna delle sue, viene definito filibustiere o col più antico pirritànu (birbante, furbacchione) e ci si ride sopra alle marachelle.
Ma quando si mostra coraggioso e in gamba, incurante dei rischi che può correre, allora sarà lodato come un cocciu i tacca, curnuteddu o crasticeddu.
Curnutu e crastu (cornuto e montone, cioè il maschio castrato della pecora) hanno un significato simile e per gli adulti generalmente sono un insulto (⎆ Le parolacce a Palermo ). Ma a volte questi termini veicolano una sfumatura positiva per esaltare la furbizia: così cocciu i tacca si riferisce al semino che è piccolo ma si fa sentire, eccome! ed è il senso che si usa per i bambini discoli, ma furbi e simpatici.
Altri modi di definire o chiamare i bambini in Sicilia ce ne saranno certamente tanti altri: ebbene scriveteli nei commenti se ne conoscete!
Saverio Schirò
Fonti:
- Immagini – by pixabay.com
- L. Milanesi, Dizionario Etimologico della Lingua Siciliana, Mnamon 2015
- A. Traina, Nuovo vocabolario Siciliano-Italiano, Palermo, Giuseppe Pedone Lauriel editore, 1868
Nell’entroterra siciliano esattamente a Barrafranca si usava definire un bambino molto discolo: tristu
Es. Stu carusu jè tristu.