Non so bene quando si è smesso di giocare per strada a Palermo. Magari ancora qualcuno lo fa, probabilmente nei quartieri più popolari della città, dove gli spazi sono meno congestionati dal traffico. Una volta, noi ragazzini stavamo tutto il tempo fuori! Ma era normale se pensiamo che le case non sempre erano sufficienti per la prole numerosa di molte famiglie. Così, dopo la scuola e i compiti (chi li faceva!) si andava a giocare per strada. Valeva per i maschietti e per le femminucce, almeno fino a quando queste erano considerate piccole, poi venivano “entrate dentro” cioè costrette a rimanere a casa per salvaguardare l’onore.
Una volta fuori, qualcosa si doveva fare e senza giocattoli preconfezionati i giochi si dovevano inventare e i giocattoli costruire.
Di giochi ne esistevano davvero tantissimi e sarebbe quasi impossibile elencarli e spiegarli tutti. In un altro ricordo ho scritto del calcio giocato per strada e delle sue regole (⇒ Palermo e il calcio di strada) ma con un pallone i giochi che si potevano fare erano numerosi: dal semplice sbatterlo al muro cantando una filastrocca fino ai giochi più complicati come “palla prigioniera” o “palla avvelenata” e altri ancora. Lo stesso per la “corsa con i sacchi” o tutti i giochi che potevano essere organizzati con una semplice corda. Una carrellata di semplicità e fantasia che un po’ tutti quelli della mia generazione hanno vissuto, magari con altri nomi e regole differenti. Qui parlerò solo di alcuni giochi della Palermo dei primi anni Settanta, così come io li ricordo e accetto correzioni e dettagli ulteriori nei commenti, così come le vostre esperienze personali.
Muffa
Un gioco ancora attuale che non prevede alcun oggetto ed è adatto a maschi e femmine. Un certo numero di ragazzi in uno spiazzo fanno “Il tocco” cioè la conta per sceglierne uno: è quello che ha “la muffa”. Il gioco consiste nel liberarsene contagiando un altro giocatore toccandolo. Così in un fuggi fuggi generale chi ha la muffa rincorre gli altri finché ne tocca uno gridandogli “muffa!” per poi scappare perché da cacciatore è diventato preda.
I quattro cantoni
Un gioco per cinque persone che si può fare anche dai più grandi. Il luogo deve essere approssimativamente un quadrato: un cortile con quattro spigoli, uno spazio tra quattro alberi, un incrocio in un giardino. Insomma occorrono quattro punti nei quali si disporranno quattro giocatori. Il quinto sta al centro. Il gioco consiste nello scambiarsi di posto velocemente tra i quattro mentre il quinto cercherà di rubare una postazione lasciata vuota. Chi perde la “casa” rimane al centro e si ricomincia.
Uno, monta la luna
Solo adesso, facendo ricerche, scopro la frase esatta che si diceva in questo gioco! Nella mia memoria ricordo qualcosa come “una mantola l’una”, ovviamente frase senza senso. Invece un senso l’aveva, infatti “uno” sta per il numero e “monta la luna” si riferisce al saltello che si faceva sulla schiena di un ragazzo piegato a mo’ di cavalletto, con le mani sulle ginocchia e la testa abbassata. Subito dopo il primo, saltavano a uno a uno gli altri per poi ricominciare il giro con “due, bue”… “tre, dare un bacio alla figlia del re”… e così via con salti accompagnati da gesti un po’ più difficili, come dare un calcetto nel sedere di chi stava sotto. Dopo l’ultimo salto, un fuggi fuggi generale e chi veniva preso si metteva sotto.
Mosca cieca
A turno, una persona veniva bendata con un grande fazzoletto. La si faceva ruotare su se stessa due o tre volte e poi bisognava non farsi prendere mentre quella a tentoni cercava di acchiappare qualcuno. Il perdente andava sotto a sua volta. Per questo gioco era necessario uno spazio limitato e privo di ostacoli che facessero inciampare “la mosca”.
Nascondino
Un gioco antichissimo: infatti lo conoscono tutti. Pare che anche Adamo scoprendosi nudo si sia nascosto nel paradiso terrestre! Uno a turno a faccia al muro contava fino a dieci o più, mentre gli altri scappavano a nascondersi in qualche luogo nelle vicinanze. Mentre chi sta sotto va in cerca dei ragazzi nascosti, grida il nome di chi ha scoperto battendo una mano sul muro dove ha fatto la conta e costringendolo a venire allo scoperto e rinchiudersi in uno spazio stabilito come “carcere virtuale”. Durante la ricerca i ragazzi cercheranno di guadagnare la libertà personale raggiungendo la “casa” e battendo le palme delle mani gridando “battipanni”. Se l’ultimo rimasto riesce nell’impresa, gridando “battipanni liberi tutti” renderà liberi i compagni “catturati”. Poi si ricomincia cambiando i ruoli.
Lo schiaffo del soldato
Era un gioco destinato ai maschietti più grandicelli. Da qui, forse il nome “del soldato”. Il malcapitato si posizionava di schiena, la mano destra a coprirsi il volto e la sinistra sotto il braccio destro, con il palmo aperto. Gli altri ragazzi si mettevano tutti dietro e uno di essi gli dava uno schiaffo sulla mano. Lui si girava per capire chi l’avesse schiaffeggiato mentre gli altri facevano ruotare il dito indice con aria canzoniera. Se indovinava, veniva sostituito da quest’ultimo altrimenti continuava a subire fino a quando non avesse indovinato. E vi assicuro che non si trattava di schiaffetti!
Acchiana u patri cu tutti i so figghi
Un gioco antico conosciuto in molti luoghi. Non ho mai capito bene quale fosse l’intento finale perché non vi era un inizio né una fine e neppure regole ben definite. Ci si divideva in due squadre, solo maschi. I ragazzini di una squadra si posizionavano in fila, uno dietro l’altro piegati con le mani sulle ginocchia e le teste in giù a creare una specie di muro umano. Il primo della fila stava piegato su di un compagno in piedi poggiato al muro: “il cuscino” (di solito il più mingherlino).
L’altra squadra doveva saltare sopra questo cavalletto allungato, un ragazzino dopo l’altro gridando “acchiana u patri cu tutti i so figghi” (sale il padre con tutti i suoi figli).
Saliti tutti, il gioco consisteva nel non cadere, pena di il cambio di ruolo, per un certo numero di secondi prestabilito. La difficoltà per questi consisteva nel fare salti abbastanza lunghi per lasciare spazio ai compagni, per gli altri la forza di reggere il peso senza “sconocchiare” cioè crollare sulle gambe.
Ruba fazzoletto
Un bellissimo gioco di velocità ma anche di astuzia. Due squadre con lo stesso numero di bambini si posizionavano equidistanti da “un capo” che teneva in mano un fazzoletto pendente. I bambini di ogni squadra stavano uno accanto all’altro facendo una fila: ad ognuno era assegnato un numero corrispondente a quello della squadra opposta. Il capo al centro chiamava il numero e i bambini che avevano quel numero correvano per prendere il fazzoletto prima del concorrente. Ma dovevano farlo ritornando al proprio posto senza essere toccati dall’avversario. Un punto a chi arrivava al traguardo o toccava l’avversario che aveva in mano il fazzoletto. Si capisce che la bravura consisteva nell’essere veloci a raggiungere la meta e schivare le mani dell’avversario dopo avere rubato il fazzoletto oppure nella furbizia di farlo prendere all’altro toccandolo subito dopo.
Trottola (a strummula)
Un giocattolo che non si vede più in giro. A quei tempi era di legno, con una serie di righe nella parte che assottigliava e finiva con una punta di ferro. Uno spago, con un fermo organizzato con un tappo di latta schiacciato e bucato al centro oppure con un cappio finale da introdurre intorno al pollice, veniva attorcigliato intorno alla strummula. Un lancio a strappo verso terra ed ecco vederla girare vorticosamente. I più bravi erano capaci di di prenderla sul palmo della mano ancora roteante o eseguire altre peripezie funamboliche. Ma il gioco vero e proprio era una sfida che costava al perdente un certo numero di “pezzate”, cioè colpi violenti dati con la punta della trottola sull’altra. Ferite che si vedevano e alla lunga costavano la perdita del giocattolo che veniva spaccato in due.
Carrozzoni e monopattini
Pezzi di legno recuperati alla meno peggio, due o quattro cuscinetti a sfera ed ecco venire fuori i piccoli meccanici e falegnami! A Palermo più il monopattino che il carrozzone, perché per quest’ultimo la pianura cittadina mal si addiceva.
Per il carrozzone occorreva una tavola di legno grande più o meno come uno sportello da cucina, altri pezzi più piccoli per organizzare una specie di sterzo, laccio, chiodi e pochi attrezzi ma soprattutto 4 ruote a palline! Ovvero i cuscinetti a sfera (solo secoli dopo ho capito che le ruote a pallina si chiamavano in quel modo!).
Il monopattino aveva bisogno di due assi di legno e solo due ruote che si mendicavano a qualche meccanico del quartiere. Il progetto esecutivo era semplicissimo, ma occorreva un perno in ferro per assemblare le due assi.
Palermo Messina Catania
Mentre le bambine con i gessetti disegnavano “la campana” con le caselle numerate per saltarci dentro con un piede, i maschietti disegnavano per terra arcuati percorsi da Palermo fino a Catania passando da Messina. Percorsi curvilinei, ora stretti ora più larghi da percorre pizzicando tappi di gazzosa capovolti. Tre pizzichi ciascuno, senza uscire dalle linee del percorso fino ad arrivare alla meta. Di tanto in tanto un piccolo slargo, simile a quelli autostradali per avere più chance: si chiamavano purpi (polpi). Vinceva chi raggiungeva per primo la meta.
Le figurine
Negli anni settanta a Palermo impazzavano le raccolte di figurine con i calciatori. Li produceva la Panini di Modena e ritraevano le facce dei calciatori di tutte le squadre di calcio. Quelli della seria A interi o a mezzo busto, quelli della serie B a due a due in ogni figurina. C’erano poi gli stemmi delle società e la foto di tutta la squadra. Completare gli album era davvero un’impresa difficile per cui tra gli scambi fra i ragazzi delle figurine mancanti rimanevano un notevole numero di doppioni. Con queste si giocava in vari modi ed i ragazzi più bravi ne avevano mazzi su entrambe le tasche dei pantaloni.
Alcune figurine erano più preziose, si chiamavano “valide” perché portavano la scritta “valida” sul retro, e se raccolte in certo numero davano diritto a svariati regali. Si potevano spedire oppure si consegnavano ad una succursale cittadina che a Palermo aveva una sede dietro la stazione Centrale. Ovviamente queste figurine erano le più ambite e molti giochi avevano in palio proprio un certo numero di queste. Si potevano vincere con qualunque altro gioco, oppure giocare direttamente con le figurine.
I giochi più tipici erano “il soffio” (sciusciuni), attraverso il quale si dovevano fare girare da fronte a retro un mucchietto di figurine poste capovolte a ridosso di un muro. Chi riusciva a girarle tutte in un soffio, le prendeva. Se invece del soffio si usava un sussurro particolare, si giocava a “PPa” che corrispondeva al suono del fiato che doveva fuoruscire dalla bocca per capovolgere il mucchietto di figurine piegate in centro. Più difficile era a “battuni”, cioè una specie di smanacciata data col palmo della mano a terra vicino ad un mucchio di figurine piegate leggermente nel mezzo per facilitare il ribaltamento. Facile a dirsi ma doloroso a farsi, specie se il mucchio era consistente: provare per credere!
Spagnu, fossu, accustari
Sono giochi da marciapiede. Alcuni si potevano fare con i tappi di latta delle bottiglie, oppure con le catenelle, mentre “u spagnu” solo con le monete: soldi veri! Non alla portata di tutti, dunque.
Le catenelle erano di moda fino ai primi anni settanta, poi sono sparite: erano in plastica, a forma di “C” o di “S” e di tutti i colori. Si compravano a mucchietti e si incatenavano secondo i colori, la forma o a casaccio. A gruppetti di quattro o cinque venivano utilizzate per giocare per esempio “accustari”, cioè lanciandole con le mani il più vicino possibile ad un muro, o verso il marciapiede. Vinceva chi si avvicinava più al muro o al precipizio, senza farle cadere. In questo modo, i più bravi raccoglievano lunghissime fila di catenelle avvolgendole al collo a mo’ di sciarpe multicolori mostrando orgogliosamente la loro maestria.
Questo per i bambini, perché i più grandicelli facevano gli stessi giochi con i soldi veri! Monete da 10, 20, 50 o 100 lire, che a quel tempo rasentavano il gioco d’azzardo!
Il più complesso era “u spagnu” e vedeva più giocatori cimentarsi nel far rimbalzare una moneta su una parete sopra il marciapiede. Cominciava il primo e lasciava la moneta esattamente dove era finita dopo il rimbalzo. Coloro che seguivano dovevano cercare di fare rimbalzare la loro vicino alle altre entro la distanza del piede: se potevano toccarle entrambe mettendoci sopra la scarpa, allora la moneta era guadagnata. Lo “spagno” era il colpo da maestro o da “culoso” (fortunato a Palermo si dice “avere culo”!) che faceva arrivare la moneta nel bordo del marciapiede senza che cadesse, esattamente nella parte limitata dal blocco in pietra. Chi faceva “spagnu” vinceva in un sol colpo le monete di tutti gli altri. Colpo difficile quanto pericoloso perché spesso sotto il marciapiede c’era “a morte” cioè il tombino e se finiva là, addio moneta!
Saverio Schirò
Immagini tratte dalla Rete
Bello questo articolo; tutti giochi conosciuti e praticati nella mia infanzia.