In alcune vecchie planimetrie del Palazzo Reale è stato riscontrato che la grande stanza attualmente chiamata Sala Gialla, nell’ala Maqueda, era un tempo conosciuta con il curioso nome di “Galleria dei Pecoroni”.
Sebbene tale nome faccia sorridere, in relazione ad una corte a volte troppo accondiscendente nei confronti dei sovrani, in realtà si riferisce alla presenza di due grandi arieti in bronzo, bellissimi esemplari di arte greca risalenti al II secolo a.C., che furono esposti in questi spazi fino al 1848.
Secondo fonti e tradizioni storiche, tali statue furono importate da Costantinopoli a Siracusa dal bizantino Giorgio Maniace, che volle porli ad ornamento della sua fortezza, nell’undicesimo secolo. Lì rimasero fino alla metà del 1400, quando in seguito allo scoppio della rivolta siracusana, il re Alfonso il Magnanimo si vide costretto a chiedere rinforzi ad alcuni nobili del suo regno. Gli venne in aiuto Giovanni Ventimiglia, marchese di Geraci, il quale, soffocata la rivolta, ricevette in dono gli arieti, che furono trasportati nel suo Stato di Castelbuono. Alla morte di Giovanni i bronzi furono utilizzati come ornamento della sua tomba tuttavia, nel 1488, il nipote Arrigo, avendo contratto grossi debiti, si vide confiscare tutti i beni di famiglia, compresi i “Pecoroni” che furono così trasportati allo Steri di Palermo, a quel tempo sede del viceregno.
Da allora gli arieti si mossero con i regnanti, passando dapprima al Castello a Mare, e successivamente al Palazzo Reale, dove il viceré Duca di Maqueda, li fece valorizzare collocandoli sopra mensole di marmo nella sala delle udienze, con apposite lapidi illustrative.
Ma le statue non piacevano soltanto ai viceré. Quando nel 1735 Carlo III fu incoronato a Palermo, provò ad imbarcarli su una nave inglese diretta a Napoli, per adornare la sua reggia, ma i palermitani, che mai andarono d’accordo con i loro regnanti stranieri, espressero un unanime disappunto che spinse il nuovo re a riportare immediatamente le statue al loro posto, per evitare ulteriori malcontenti.
Tanti viaggiatori e studiosi, tra cui Houel e Goethe vennero a Palermo per ammirare gli arieti, di cui lasciarono illustrazioni e descrizioni accurate. Nonostante alcuni restauri disastrosi (nel 1836 pare che le statue fossero state dipinte con colori ad olio), i “pecoroni” rappresentarono un lustro cittadino per diversi secoli fino a quando, durante la rivoluzione palermitana del 1848, il loro destino cambiò definitivamente.
Dopo la resa delle truppe borboniche, asserragliate nel Palazzo Reale, il popolo si affrettò a saccheggiare la reggia di tutto ciò che potesse essere trasportato. Nonostante lo sforzo dei capisquadra, che si impegnarono ad evitare queste razzie, molti lampadari, mobili, lumi ed argenterie furono sottratte. Nell’impeto della folla uno dei due arieti fu fatto a pezzi, mentre l’altro fu gravemente danneggiato. Per il primo non si trovò altra soluzione che fonderlo, per recuperarne il metallo, mentre il secondo fu restaurato e donato al Museo Nazionale Salinas di Palermo, dove ancora oggi è conservato.
Nonostante la mancanza di fonti storiche certe, qualche studioso ha attribuito l’opera alla scuola del famoso scultore greco Lisippo, famoso per le sue figure d’animali. Secondo altre ipotesi, non accertate, gli arieti dovevano essere collocati su un’alta colonna del porto dove, a seconda della direzione del vento, l’aria che entrava da un foro vicino ai piedi usciva poi dalla bocca emettendo un “verso” che avvertiva i marinai delle condizioni atmosferiche.
Samuele Schirò
Fonti: | Rosario La Duca – La città perduta IV serie |
http://it.wikipedia.org/wiki/Ariete_di_bronzo |