I funerali a Palermo erano una cosa seria

I funerali dei nobili siciliani erano lo specchio di quanto una persona contasse in vita e culminavano di solito con uno sfarzoso corteo per le vie di Palermo. Ecco come si svolgevano.

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La vita da nobile nella Palermo del ‘600 doveva essere una gran fatica. Avere il titolo non bastava a guadagnarsi il rispetto della società, o quantomeno delle persone che contavano. Per questo l’importanza e la nobiltà di una famiglia si misuravano anche in manifestazioni mondane di ostentata ricchezza.
Feste e ricevimenti erano dunque uno strumento con cui entrare in competizione con altri nobili, ed era meglio che tutto andasse alla perfezione, per evitare di dare adito ad infamanti pettegolezzi di cui era poi difficile sbarazzarsi.

Questa vitaccia fatta di apparenze e ipocrisie, non si concludeva neanche con la morte del nobile di turno che, anche con le proprie celebrazioni funebri aveva tanto, tantissimo da dimostrare, in un atto di estrema ostentazione di potere e influenza.

Ecco cosa significava morire (da nobili) a Palermo.

Il corteo funebre

I funerali dei nobili siciliani erano lo specchio di quanto quella persona contasse in vita, quindi ogni dettaglio veniva attentamente pianificato, ben prima della dipartita, dallo stesso protagonista, soprattutto se non si trattava di un trapasso tragico e inaspettato.

Il lugubre spettacolo della morte, che spesso comprendeva più riti funebri, culminava di solito con uno sfarzoso corteo per le vie più importanti di Palermo, al quale partecipava gran parte della cittadinanza, alcuni per effettivo interesse nei confronti del defunto, altri per dovere, la maggior parte solo per curiosità.
Erano infatti cerimonie opulente che attiravano folle di spettatori, eventi di cui si sarebbe parlato per mesi interi, e che dunque nessuno voleva perdersi.

Così come avviene tutt’ora in occasione dei matrimoni, anche i funerali all’epoca erano materia di commento per i palermitani più pettegoli. Si guardavano tutti i dettagli relativi all’organizzazione, alla magnificenza delle carrozze e dei vestiti, alla spettacolarità degli addobbi, si trattava insomma di eventi mondani pubblici per i quali i nobili facevano letteralmente a gara, seppur da morti, spendendo veri e propri capitali al solo scopo di fare un ultimo sfoggio del proprio prestigio, magari facendo anche sfigurare l’ultimo funerale della famiglia rivale.

Chi partecipava a questi cortei?

Naturalmente la nobiltà al gran completo, o almeno una rappresentanza di ogni famiglia. Poi c’erano le alte cariche del regno e della chiesa. Viceré, arcivescovi e cardinali ovviamente si scomodavano solo per i funerali più importanti, altrimenti mandavano i loro vicari, sempre in forma ufficiale.

Dietro alla rappresentanza nobile, che solitamente seguiva il corteo all’interno delle proprie vetture, la processione era poi rimpolpata da un altro ragguardevole gruppo a piedi, di solito costituito dai servitori in livrea, dai capi e rappresentanti delle corporazioni di mestiere, dalle confraternite, dalle congregazioni religiose, dai ragazzi degli orfanotrofi e infine da qualche centinaio di monache.

A rendere il tutto più colorito (non in senso cromatico, visto che il nero era ampiamente prevalente), c’era la presenza delle “chiancimorti”, delle professioniste che seguivano il carro funebre piangendo platealmente, strappandosi le vesti e urlando con dissimulata disperazione, ripetendo nenie su quanto il morto fosse stato generoso e importante nel corso della sua vita.

Questi veri e propri spettacoli, seppur unici nei dettagli più minuti, erano piuttosto comuni a Palermo, visto che i nobili non erano certo pochi. Approssimativamente possiamo stimare che la cittadinanza assisteva a queste celebrazioni almeno con cadenza settimanale.
Nonostante ciò, questi eventi richiamavano comunque l’attenzione del pubblico ed erano seguiti con grande partecipazione.
I cortei, nel loro percorso, includevano quasi sempre un passaggio lungo il Cassaro, da un lato per una questione di prestigio, dall’altro per permettere anche alle monache di clausura di assistere all’evento, naturalmente nascondendosi dietro le fitte grate dei loro conventi.

Pur non disponendo di un affaccio diretto sul Cassaro, anche le monache della Martorana trovarono il modo di partecipare alle processioni, non solo funebri, acquistando una loggia del vicino palazzo Guggino (ad angolo con l’odierna via Maqueda) e facendosi scavare un lungo tunnel sotterraneo che permettesse il passaggio delle suore da un edificio all’altro, senza dover passare dalla strada.

Al termine del corteo, il nobile deceduto veniva generalmente consegnato ai frati cappuccini che in quegli anni custodivano gelosamente i segreti dell’imbalsamazione.

Dopo la rimozione degli organi interni, che venivano di solito divisi tra i feudi più remoti dove diventavano protagonisti di ulteriori cerimonie funebri, il morto subiva una serie di trattamenti della durata di circa 9 mesi, al termine del quale, in una specie di atto di rinascita, il corpo imbalsamato veniva finalmente riconsegnato alla famiglia.

Quest’ultima poteva quindi decidere se lasciare il proprio caro appeso (o disteso) nelle ben note Catacombe dei Cappuccini, oppure se acquistare a caro prezzo un sepolcro privato dove collocarlo e fargli visita più liberamente.

Era solo a questo punto che il triste rituale si faceva davvero macabro, ma questa è un’altra storia.

Fonti: P. Zullino – Guida ai misteri e piaceri di Palermo – 1973 – Sugar Editore
Foto: Depositphotos

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Samuele Schirò
Samuele Schirò
Direttore responsabile e redattore di Palermoviva. Amo Palermo per la sua storia e cultura millenaria.

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