La canna da zucchero, una pianta originaria dell’Indonesia e della Nuova Guinea, si è diffusa gradualmente in Indocina e da lì in tutto il Medio Oriente, dove già i persiani ne facevano uso. La conoscenza di questo prodigioso vegetale in grado di “produrre un miele che non ha bisogno di api”, come riportato anche nelle memorie di Alessandro Magno, si diffuse presto tra i popoli arabi, che ne affinarono la lavorazione ed iniziarono ad utilizzarlo nella loro famosa tradizione dolciaria. Ed ecco come la canna da zucchero, o cannamela, fu introdotta in Sicilia. Al loro arrivo in una nuova area, i coloni arabi portavano sempre alcune delle piante da loro utilizzate quotidianamente. Alla dominazione araba dobbiamo infatti arance, limoni, melanzane, carrube, cotone, riso, pesche, albicocche e, appunto, canne da zucchero.
La coltivazione e la lavorazione di questa pianta è attestata dagli scritti di Ibn Ankal, in cui si legge “Lungo la spiaggia, nei dintorni di Palermo, cresce vigorosamente la canna di Persia e copre interamente il suolo; da essa si estrae il succo per pressione”.
Dopo la dominazione araba la produzione di zucchero in Sicilia continuò, ma solo in piccole quantità, sufficienti al fabbisogno della corte dei re Normanni, i quali fecero costruire dei nuovi “trappeti” (gli impianti di lavorazione della canna da zucchero) nei pressi di Palermo e Monreale.
Durante le crociate, con l’importazione dello zucchero da parte di genovesi e veneziani, da loro chiamato “sale arabo”, la domanda di questo bene di lusso crebbe rapidamente. Tutti i nobili d’Europa iniziarono ad acquistare il prezioso zucchero, che esponevano sulle loro tavole come segno di potere e ricchezza.
Vista la crescente domanda, il sempre lungimirante Federico II di Svevia dispose la creazione di nuove coltivazioni ed impianti di produzione in tutta la Sicilia, una delle pochissime zone in Europa con il clima ed il terreno adatto alla coltivazione di piante provenienti dai tropici.
La canna da zucchero, infatti, è tutt’altro che semplice da coltivare. Richiede alte temperature tutto l’anno, enormi quantità d’acqua e parecchio tempo per raggiungere il grado di maturazione perfetto. In Sicilia le condizioni climatiche non sono proprio ideali, dato che solo in estate la temperatura si mantiene costantemente sopra i 20°, quelli necessari a far crescere la cannamela.
Nonostante ciò, gli inverni non troppo rigidi e l’abilità dei coltivatori, permetteva di ottenere delle canne mature alte circa un metro e mezzo. Un risultato sufficiente a dar vita ad un commercio redditizio.
Gli impianti di lavorazione iniziarono a fiorire su tutta la costa settentrionale, dalla zona di Balestrate (dove appunto sorge il comune di Trappeto), fino a raggiungere Palermo, nei pressi di Ponte Ammiraglio, Falsomiele (da qui il suo nome), Acqua dei Corsari, Villabate, Bagheria, Altavilla, e così via sino a Messina. Praticamente ovunque ci fosse un fiume sorgeva una coltivazione oppure un impianto di lavorazione.
Perché? Perché come detto prima la canna da zucchero ha bisogno di un’enorme quantità d’acqua per crescere. Inoltre la prima fase di lavorazione si basa sulla spremitura delle canne, che si svolgeva in mulini alimentati appunto da fiumi e torrenti.
Insomma, nonostante le enormi difficoltà e l’elevato costo di produzione, molti nobili siciliani decisero di dedicarsi alla produzione di questo autentico oro bianco, che veniva poi venduto a carissimo prezzo in tutta Europa a scopo medicinale o come dolcificante.
Il processo di produzione iniziava dalle piantagioni, dove le piante venivano irrigate almeno 3 volte a settimana, soprattutto nel periodo estivo, quando registravano la maggiore crescita.
Dopo 3 o 4 anni, quando le canne raggiungevano la giusta maturazione, venivano raccolte e trasportate agli impianti di produzione, spesso tramite piccole imbarcazioni che facevano la spola tra i porticcioli costruiti appositamente nei pressi delle piantagioni e dei trappeti.
Qui le canne venivano macinate con delle mole di pietra e poi lasciate a decantare in un contenitore vegetale, prima di essere spremute “a vite”, con un processo manuale simile a quello per la produzione del vino. In seguito il succo veniva cotto e asciugato in apposite caldaie di rame (che venivano prodotte solo a Venezia) e poi filtrato in contenitori di terracotta dotati di piccoli buchi. Tale processo veniva ripetuto per tre volte, sino a raggiungere un grado di purezza adatto alla vendita.
Infine lo zucchero raffinato veniva imballato in una speciale carta azzurrina (da qui il colore carta da zucchero) e spedito in tutta Europa.
Tale industria fiorì fino al 1600 circa, quando inglesi e portoghesi iniziarono a produrre la canna da zucchero ai Caraibi ed in Sud America. Qui, grazie al clima favorevole, le canne da zucchero superavano facilmente i 3 metri d’altezza in breve tempo e grazie alla manodopera degli schiavi africani, i mercanti riuscivano ad importare enormi quantità di questo bene ad un prezzo molto inferiore rispetto a quello normalmente pagato in Europa.
Questa “concorrenza sleale”, unita alla successiva produzione di barbabietole da zucchero in Francia, Germania, Est Europa e Russia, mise fine a questa industria siciliana e rese lo zucchero un bene diffuso anche sulle tavole della gente comune.
Buongiorno, diversi agrumi e le albicocche, erano conosciuti dai romani, come spesso l’attribuzione ai musulmani é errata. Ad Avola la canna fu coltivata fino all’inizio del novecento.