La storia che oggi proverò a raccontarvi è un esempio fra i più eloquenti di come funzionava la giustizia in Sicilia nei secoli passati.
È ampiamente documentato che in determinati momenti della storia del Regno di Sicilia, l’atteggiamento della monarchia spagnola nei confronti dei potenti feudatari che commettevano crimini di ogni genere, era piuttosto “morbido”.
Emblematico, a questo proposito, anche per l’eccezionalità dei protagonisti coinvolti, è la vicenda che nei primi decenni del XVI secolo fece grande scalpore: l’omicidio del giudice palermitano Pietro Antonio D’Advena.
L’assassinio del giudice D’Advena
Il giudice D’Advena, magistrato di indubbia correttezza, persona stimata e benvoluto da tutti, aveva emesso una sentenza definitiva a favore del barone di Villafranca Andreotta Agliata in seguito ad una controversia giudiziaria che vedeva l’Agliata opposto al Conte di Caltabellotta, Giovan Vincenzo de Luna.
Per il ricco e potente conte de Luna, esponente della più prestigiosa aristocrazia isolana, uno dei maggiori feudatari del regno, il verdetto contrario del giudice D’Advena risultava intollerabile, non gli andava proprio giù. Pertanto, convintosi che il giudice non avesse fatto buon governo della legge, la sua vendetta non tardò ad arrivare. Per il giudice, il conte di Caltabellotta, sentenziò un’unica pena: la morte.
Secondo le fonti narrative una sera, mentre il vecchio giudice si trovava nello studio di casa sua, immerso nella lettura, fu sorpreso da due sicari mascherati che, senza alcuna pietà, lo uccisero lasciandolo a capo chino su un libro aperto.
La voce popolare, quel che si mormorava nelle strade e nelle piazze di Palermo, indicava il conte Giovan Vincenzo de Luna come mandante dell’atroce omicidio.
Dell’organizzazione dell’agguato fu sospettato il “gentiluomo” Vincenzo Cappasanta di Salemi, uomo fidato del conte, mentre furono accusati di essere gli esecutori materiali del delitto i due cittadini termitani Giacomo Caso e Giacomo Gentile, detto “Squaglaburro”.
Conseguenze giudiziarie per i colpevoli? Nessuna!
I due assassini, vassalli del conte di Caltabellotta, riuscirono a dileguarsi in tempo, mentre Vincenzo Cappasanta fu preso e imprigionato: ma a poche settimane di distanza, avvalendosi delle facoltà in suo possesso, il viceré di Sicilia Ettore Pignatelli Duca di Monteleone ne ordinò l’immediata scarcerazione.
Nessuna conseguenza, ovviamente, per lo “strapotente” conte di Caltabellotta, che poteva contare anche sul favore determinante del viceré.
Si comprende bene che il peso politico e il prestigio di cui godeva il conte de Luna, già Presidente del Regno nel 1516-17 (la più alta carica consentita ad un “regnicolo”), era tale che il viceré Monteleone ritenne che “non convenia cussì mettiri li mano a carcerari un conti et maxime una persona cussì princhipali como è lo ditto conti”.
Di eventuali testimoni, neanche a parlarne: evidentemente l’impunità di cui godevano i potenti faceva si che nessuno, per timore, era disposto a fornire alcuna testimonianza.
Anche gli stessi figli del giudice assassinato avevano paura di intraprendere qualsivoglia azione contro il “presunto” mandante dell’omicidio. Soltanto uno dei figli, il dottor Gerardo D’Advena, si imbarcò per raggiungere Madrid nell’intento di chiedere giustizia all’imperatore in persona, ma la sventura volle che la nave dove si era imbarcato fu assalita dai pirati ed egli, catturato, morì in prigionia.
L’intervento viceregio e la tolleranza nei riguardi del conte di Caltabellotta trovava la sua motivazione nel fatto che il de Luna, oltre ad essere uno dei maggiori baroni del Regno, in più occasioni aveva dimostrato assoluta fedeltà alla Corona, meritandosi le simpatie personali dell’Imperatore Carlo V, che addirittura promosse personalmente il matrimonio del primogenito del conte, Sigismondo, con la nobildonna fiorentina Luisa Salviati de Medici, nipote di Papa Leone X.
Tentativi legali per rendere giustizia dell’assassinio del giudice D’Advena

Va tuttavia precisato che le reiterate ingerenze su vicende giudiziarie del viceré erano poco tollerate da una buona parte della magistratura del Regno la quale lamentava che tali “interferenze”, oltre che violare le loro prerogative, vanificavano, come in questo caso, gli sforzi dei ministri togati di riuscire ad intentare processi contro grandi feudatari o contro personaggi a loro legati.
Si fece interprete di questo malcontento, l’avvocato fiscale Antonio Montalto che, esercitando il suo ufficio, mise al bando gli esecutori dell’assassinio del giudice D’Advena.
Spinto dal viceré, intervenne il Tribunale della Regia Gran Corte che, con un processo tremendamente sommario, decise di rimetterli, in quanto suoi servitori, al foro feudale del conte di Caltabellotta che godeva del privilegio del “mero e misto imperio” (alta e bassa giustizia) e, in più occasioni, i due delinquenti furono visti (anche dal giudice Montalto in persona), accompagnarsi, con arrogante disinvoltura, al conte in giro per la città.
Che altro si sarebbe potuto fare?
Nel 1530 il Montalto inviò personalmente un lungo memoriale a S.M. Carlo V dove denunciava gli innumerevoli crimini commessi da parte di esponenti dell’aristocrazia locale e, facendo espliciti riferimenti, descriveva con minuzia di particolari anche gli avvenimenti che riguardavano l’assassinio del giudice D’Advena.
Ma come era facile prevedere nessuna risposta arrivò da parte della Cesarea Maestà. Infatti si evinceva chiaramente che il viceré non agiva in modo autonomo, ma piuttosto egli metteva in atto precise direttive provenienti dalla Corte di Madrid.
Convintosi, il Montalto, che ”li ministri non ponno fari bona guerra con cui lo vicerré voli pachi”, così scriveva:
“In quisto regno non se fa iusticia de homini de qualitati, non ho visto né vedo iusticia se non de panni baxi et di quilli cussì disventurati que non tenino cui procurari pregari et importunari pro ipsi”.
A questo punto l’avvocato fiscale preferì insabbiare tutto il carteggio, in attesa di tempi migliori, per: “conservari a la Maestà Vostra la porta aperta di potiri providiri et comandari que si faza la iustizia que del ditto caso non è stata fatta”.
Restava il fatto che, come tanti altri delitti attribuiti alla nobiltà siciliana e al ceto dominante in genere che non hanno conosciuto la verità, anche l’assassinio del giudice D’Advena rimaneva praticamente impunito.
Analizzando attentamente la vicenda appena descritta, istintivamente mi viene da pensare che, nonostante siano passati alcuni secoli, sembra che certi “costumi” non siano poi cambiati molto. Infatti ancora oggi, come allora, i potenti sono sempre potenti e la legge, che “dovrebbe” essere uguale per tutti, non lo era allora e forse, diciamoci la verità, non lo è neanche adesso.
Nicola Stanzione