Dalla clausura alla Questura: il percorso del monastero di Santa Elisabetta a Palermo

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Il palazzo oggi occupato dagli uffici della Squadra Mobile della Questura di Palermo si affaccia su piazza Vittoria, quasi di fronte al complesso che fu Palazzo Sclafani. La sua mole squadrata e possente e tutta la serie di finestre che si aprono verso la piazza, suggeriscono che un tempo questo palazzo doveva avere una precedente funzione, diversa dall’attuale: il monastero di Santa Elisabetta.

Si tratta infatti di uno dei tanti complessi conventuali che, dopo la soppressione delle corporazioni religiose nel 1866, passarono al demanio statale e furono riconvertiti per altri usi. 

La storia del Monastero di Santa Elisabetta

La nostra Questura, dunque, in origine era un monastero francescano dedicato a Santa Elisabetta d’Ungheria. Era destinato ad accogliere “donne oneste di ceto civile tra il militare e il mercantile“, come ci informa il Villabianca che lo conobbe quando era in piena attività. Un monastero non adeguato alle nobildonne palermitane, che preferivano altre congregazioni più consone al loro rango, ma alle signore perbene appartenenti a classi sociali dignitose come quelle dei commercianti e dei militari di un certo grado. 

All’inizio si trattò di una sorta di sodalizio di queste dame originato nel 1551, quando una terziaria dell’ordine Francescano dei Cappuccini, una certa Maria di Ram (o di Ramo come indica Gaspare Palermo), alla sua morte lasciò in eredità i suoi beni, fra cui alcune case in questo luogo, affinché si fondasse un monastero di Suore Cappuccine con a capo una abbadessa. 

Il suo pio desiderio si realizzò quando otto donne, terziarie cappuccine anch’esse, cominciarono a riunirsi in queste case, come una congregazione “libera”, cioè senza l’obbligo della convivenza e senza il riconoscimento ufficiale da parte delle gerarchie ecclesiastiche.

Santa Elisabetta d’Ungheria in un quadro di Francisco de Zurbaran

Questo monastero in fieri fu dedicato a Santa Elisabetta d’Ungheria che, insieme ad alcune amiche aveva fondato una comunità religiosa di donne consacrate che vivevano in mezzo al mondo. Motivo per il quale fu eletta patrona del Terzo Ordine Regolare di San Francesco e dell’Ordine Francescano Secolare.

Questa pia congregazione continuò ad operare nel quartiere dell’Albergheria ancora per molti anni, rimanendo sempre in questa situazione giuridicamente precaria, fino a quando, nel 1600, entrò in comunità una nobildonna trapanese, Suor Felicita Corso, che per età (aveva 54 anni), rango e personalità ne divenne governatrice. Sotto la sua guida, il monastero prese forma, furono isolate le case abitate dalle sorelle ed acquistate altre, cosicché l’edificio fu ampliato. Il numero delle ragazze aumentò e spontaneamente, tutte insieme, cominciarono a vivere in comunità ed in clausura volontaria tanto che nel 1607 ottennero l’autorizzazione ufficiale di Papa Paolo V. 

Nel 1625, grazie al finanziamento del dottor don Giuseppe Trabucco ed il contributo del Senato palermitano, fu costruita una nuova e più grande chiesa, ingrandita e abbellita nel 1717-1722 su iniziativa dell’Abbadessa Madre Nicoletta Amari. 

Nel 1725, un vicolo che attraversava il complesso monastico raggiungendo la via dei Tedeschi (l’attuale via Porta di Castro) fu chiuso, consentendo al monastero di raggiungere la sua configurazione definitiva. 

La chiesa (che non c’è più) del monastero di Santa Elisabetta

Secondo la descrizione fornita da Gaspare Palermo prima dell’esproprio e delle trasformazioni successive, la chiesa si trovava  al centro del monastero, affiancata da due parlatori. La facciata della chiesa presentava tre porte: una maggiore al centro e due più piccole ai lati. Sopra l’ingresso si trovava un coro sopraelevato, sorretto da due colonne doriche con archi a volta. 
La navata si chiudeva con un’abside semicircolare dove era posto l’altare maggiore sul cui tabernacolo era collocata una statua dorata della Vergine Immacolata.

L’architettura interna era in parte in stile corinzio ed in parte in stile dorico, ma nell’insieme doveva essere piuttosto sobria. Nella terza cappella a sinistra, dedicata all’Ascensione di Maria Vergine, fu sepolto l’abate Don Rocco Pirri, canonico della Cappella Palatina e scrittore di opere sacre siciliane, che quella cappella aveva finanziato. Nella sacrestia si trovava il sepolcro di Don Giuseppe Trabucco, con l’epitaffio ed il suo ritratto.

Nel 1866, il complesso fu acquisito dallo Stato e subì trasformazioni decisive che ne hanno stravolto la fisionomia. Anche la chiesa oggi è difficilmente riconoscibile, almeno quello che ne è rimasto! Spogliata dei suoi arredi e suddivisa in altezza per ricavare nuovi ambienti, è diventata sede di uffici giudiziari della Squadra Mobile della Questura e invece delle confessioni delle suore e dei fedeli è diventata testimone di interrogatori di malviventi.

Saverio Schirò

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Saverio Schirò
Saverio Schiròhttps://gruppo3millennio.altervista.org/
Appassionato di Scienza, di Arte, di Teologia e di tutto ciò che è espressione della genialità umana.

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