Il carcere ed i carcerati della Vicarìa di Palermo

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Chi conosce dove si trovava la Vicarìa, il carcere “ufficiale” di Palermo prima dell’Ucciardone? Non tutti, credo. Eppure palermitani e turisti, ogni giorno, vi passano accanto, consumando un panino con la milza o gustando un gelato da passeggio. Nei secoli passati, invece, vi si transitava con timore e orrore, scorgendo le mani dei detenuti aggrappate alle grate delle finestre o le grida che di tanto in tanto si udivano provenire dalla parte più interna.
Siamo lungo il Cassaro, all’altezza di Piazza Marina, proprio di fronte alla bella Fontana del Garraffo: quell’edificio dalla mole così severa e quel colonnato anomalo chiuso da una bella cancellata è il Palazzo delle Finanze. Un monumento ormai muto, dal momento che è stato praticamente abbandonato. E tuttavia proprio quello era il vecchio carcere della Vicarìa, ossia l’antico carcere di Palermo.

Le prigioni nella Palermo di una volta

Omicidi e delinquenti, ladri e traditori, maghi e fattucchiere, una volta arrestati, nella Palermo di una volta venivano custoditi in diversi edifici adibiti a prigione. Luoghi bui e umidi, sporchi e fatiscenti, a meno che non dovevano custodire gente nobile o benestante caduta in disgrazia. Vi erano le prigioni senatoriali accanto alla chiesa della Martorana e “le carboniere”, cioè le carceri dentro il Palazzo di Città. E quando queste si dimostrarono insufficienti, ne furono create altre nei pressi di Porta Carini.

Anche il Palazzo arcivescovile aveva le sue prigioni, più che altro per gli ecclesiastici, ed esistevano anche sezioni femminili nel carcere chiamato della Vetriera, probabilmente nei pressi di piazza Magione. Ovviamente vi erano destinate le donne di malaffare, perché le nobildonne scontavano l’eventuale pena all’interno di conventi dove rimanevano rinchiuse.
Gli aristocratici e i ricchi mercanti che si erano macchiati di qualche reato importante, venivano di solito custoditi nel carcere del Castello a Mare, almeno fino al 1593, quando l’esplosione della polveriera della fortezza causò la morte di quasi tutti i detenuti: fu in quell’occasione che perse la vita il poeta sciupafemmine Antonio Veneziano.

All’interno dello Steri, erano custoditi coloro che venivano accusati di eresia e reati contro la Fede, condannati dal tribunale della Santa Inquisizione e spesso giustiziati dopo crudeli torture.

La Quinta Casa al Molo, requisita ai gesuiti, nel 1787 divenne un carcere minorile dove i delinquenti, mentre scontavano la pena, potevano imparare un mestiere. E alcuni anni dopo, quando l’Arsenale della Regia Marina smise di essere una fabbrica di navi, una parte di essa venne adibita a “serraglio ordinario dei condannati dalla giustizia alla pena del remo e della catena”.

Ma fino a quando nel 1840 non vennero completate le “Grandi Prigioni” dell’Ucciardone ed i detenuti trasferiti nella nuova struttura, il carcere “ufficiale” di Palermo fu quello della Vicarìa, dove per circa 250 anni furono detenuti i colpevoli dei reati più disparati. 

Il carcere della Vicarìa di Palermo

Quando, il 3 aprile del 1578, il viceré Marco Antonio Colonna pose la prima pietra all’angolo tra il Cassaro e la chiesa di Porto Salvo, il progetto in costruzione era destinato ad ospitare la Regia Dogana. Per ragioni poco chiare, quando nel 1595 venne inaugurato, l“Edificio Nuovo”, così chiamato per diversi anni, era stato adattato a “Prigione di città” e conosciuto comunemente come “la Vicarìa”.

Vicarìa di Palermo dal Teatro geográfico antiguo y moderno del Reyno de Sicilia (ms. del 1686, Biblioteca Nazionale di MadridMinistero degli Affari Esteri di Madrid)

La Vicarìa si presenta come un grande edificio squadrato e isolato, al limite tra il Piano della Marina e la via dei Cassari. Prima delle modifiche rese necessarie per riparare i danni del terremoto del ‘93 e quelli provocati dai moti popolari del 1773, la facciata principale sul Cassaro si presentava decorata da belle pietre d’intaglio, con due fontane addossate ai lati di un grande portone sormontato da un’enorme aquila reale simbolo del Senato e della città. 
Queste fontane, inizialmente erano nel retro dell’edificio, poi spiantate, furono collocate dalla parte del Piano della Marina come abbellimento della facciata principale.

L’edificio aveva due ingressi: il principale dalla parte della facciata e un altro sul retro, la ”Porta della Cappella” dalla quale uscivano i condannati per essere giustiziati nel piano della Marina.
Superato l’ingresso principale, c’era l’alloggio del boia e più avanti un grande cortile.
Al piano terra erano ricavate le celle per i detenuti della plebe; al primo piano erano allestiti i “comodissimi” locali di detenzione per le classi nobiliari. Il secondo piano era destinato agli “Uffici”, doveva esserci la stanza del direttore chiamato “castellano“; stanze di servizio e soprattutto i locali destinati alla Compagnia dei Bianchi che si occupava dei condannati a morte. C’erano le stanze dei confrati e la Cappella dei condannati, dove lo sventurato riceveva gli ultimi conforti terreni e la possibilità della redenzione divina attraverso una buona confessione. Nei casi più ostinati si ricorreva a l’Ecce homo della chiesa della vicina Gancia, che veniva trasportato nella cappella della Vicarìa: tre giorni dopo, il condannato veniva accompagnato al supplizio.

Erano previste anche delle stanze per la Corte, cioè i magistrati, ma il progetto non giunse in porto perché questi uffici vennero presto trasferiti nel Palazzo Reale. Questi locali, insieme ad altri costruiti appositamente, sarebbero diventati l’infermeria e un piccolo Ospedale per i carcerati. Inizialmente, infatti, gli ammalati venivano trasportati all’Ospedale Grande per essere curati, ma dal 1634, grazie alla volontà di alcuni benefattori, nel piano superiore venne costruita la nuova struttura con 14 stanze per i carcerati. Dipendeva direttamente dall’Ospedale Grande che forniva un cappellano, due medici, un barbiere e un massaro, per tutti i lavori più umili.

I carcerati della Vicarìa di Palermo

Carceri medievali con le catene per i detenuti

I carcerati della Vicarìa se la passavano malissimo! Chi sbagliava doveva essere punito. Se non alla forca, almeno a soffrire. Questo significava il carcere a quei tempi, almeno per la gente comune. 
Per quanto i reclusi venissero mantenuti dalla Pubblica Amministrazione, chi aveva del denaro doveva versare una specie di tassa che andava al castellano e alle guardie: ciò gli garantiva qualche piccolo privilegio.

Mangiavano una sola volta al giorno, prevalentemente legumi, e vivevano per lo più in grandi cameroni maleodoranti dove era facilissimo prendere malattie. I più violenti potevano essere segregati in celle scavate nel pavimento ed a volte incatenati ai ceppi o alle pareti.
Erano molti coloro che non sopravvivevano fino alla fine della pena.

Chi non veniva giustiziato dopo un processo in direttissima per aver commesso crimini atroci o clamorosi, languiva anni e anni in attesa del giudizio ed a volte finiva per morire di malattie prima di avere scontato la pena. Tuttavia, per alcuni le porte della prigione si aprivano anzitempo giacché ogni anno almeno un centinaio di detenuti venivano liberati per grazia, per riduzione della pena o per condono di debiti, loro concessi dal Viceré nella festa di Natale, o dal Capitano Giustiziere in quella dell’Assunta. In quelle occasioni, la visita del Viceré avveniva in pompa magna con tanto di parata di carrozze tutte addobbate: alcuni detenuti venivano liberati, ma per gli altri era un giorno speciale perché veniva distribuito un rancio migliore.

La fine della Vicarìa e la trasformazione in palazzo delle Finanze

Il carcere della Vicarìa subì due gravi insulti: il terremoto del 1693, ma soprattutto i moti insurrezionali del novembre del 1773.

In quella occasione, il carcere fu dato al fuoco ed i prigionieri liberati: tutto l’edificio fu messo a soqquadro e vennero saccheggiate anche le stanze dei Bianchi e della Deputazione della Vicarìa, bruciata la stanza del boia e del castellano, distrutti gli strumenti per la costruzione della forca.

Un anno dopo, i danni erano stati già riparati, Ma i tempi andavano cambiando e si reclamava un trattamento più umano verso chi scontava delle pene. Così lentamente certe crudeltà vennero prima stigmatizzate e poi abolite e si rese necessario pensare anche ad un carcere più moderno. 

Nel 1837, su progetto di Vincenzo di Martino, Nicolò Puglia e Luigi Speranza furono iniziati i lavori per la costruzione di un nuovo carcere: le Grandi Prigioni all’Ucciardone. Una volta completato, nel 1841 i carcerati della Vicarìa furono trasferiti nel nuovo penitenziario, considerato per l’epoca “un’opera di civiltà e progresso”.

Nel luglio dello stesso anno, sotto la direzione di Emmanuele Palazzotto, la vecchia Vicarìa venne trasformata nel Palazzo delle Finanze e del Tesoro, pressapoco come ancora oggi potremmo vederlo se non fosse chiuso da anni ed abbandonato al suo destino.

Saverio Schirò

Fonti: 

  • Nino Basile, Palermo Felicissima, Divagazioni d’Arte e di Storia, III vol, Pietro Vittorietti Editore, Palermo 1978
  • Rosario La Duca, Dalle Carceri della Vicarìa al Palazzo delle Finanze, in La città passeggiata, terza serie, Editrice L’Epos, Palermo 2003 pgg 234-236
  • Giuseppe Bellafiore, Palermo, Guida della città e dintorni, Palermo 1986
  • Vincenzo Di Giovanni, Palermo Restaurato, Ed Sellerio Palermo 1989
  • Giuseppe Pitrè, La vita in Palermo cento e più anni fa, Vol. II, www.liberliber.

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Saverio Schirò
Saverio Schiròhttps://gruppo3millennio.altervista.org/
Appassionato di Scienza, di Arte, di Teologia e di tutto ciò che è espressione della genialità umana.

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