Con piacere pubblichiamo il commento al nostro articolo sull'”Opera dei Pupi nei ricordi di un ragazzino” che evidentemente ha risvegliato nel nostro lettore, alcuni ricordi della Palermo di una volta che molti di noi hanno vissuto e che testimoniano come, in un tempo relativamente breve, la nostra città sia cambiata.
Vogliamo condividere con voi questi ricordi, per portarli alla mente di chi ha vissuto quegli anni, e per chi invece è più giovane, per conoscere aspetti curiosi e inaspettati nella vita quotidiana della Palermo di una cinquantina di anni fa.
La Palermo di una volta nei miei ricordi
Girovagando sul web mi sono imbattuto per caso su questo sito. Mi presento: mi chiamo Vincenzo Scalia, ho 56 anni, sono palermitano e vivo da 15 anni a Roma. Ho scritto ‘a sgarra e inserta’ la parola ‘sdirrubbatu’ su Google e, sorpresa, è comparso il vostro l’articolo sull'”Opera dei Pupi“.
Mi ‘firriava’ in testa questa parola, perché io, che sono del ’57, sino al ’65 abitai in vicolo sant’Orsola, una ‘vanidduzza’ della via Maqueda, accanto alla chiesa San Nicola e via del Giardinaccio, detta ‘ u’jaidinazzu’. E lì dentro, tra quei vicoletti disagiati, sporchi e diroccati, giocavamo tra ragazzini in un punto sventrato dalle bombe della guerra, ancora calde… Quel punto era detto tra noi noi, appunto, u’sdirrubbatu.
E quanti ricordi mi affiorano nella mente, della mia Palermo, di quegli anni. Il venditore di arancine al cioccolato, che, passando la mattina, suonava la trombetta e diceva: «mi ‘nni vaju!»
Lo chiamavi dal balcone, calavi u panaru, e con 50 lire ti dava un’arancina ben arrotolata nello zucchero. Ma alle sei di ogni mattina si sentiva la voce cantilenante del venditore di ‘ciavusi’, ovvero i gelsi, bianchi o rossi. Che diceva una filastrocca che capii dopo molto tempo: «‘…a st’ura t’arrifriscanuuu’».
Quella era la via Maqueda, la centralissima via Maqueda! Chi lo direbbe che in certi momenti della giornata ‘cunzavamu’ le porte e giocavamo a calcio? Le vetture erano rarissime….
E proseguivamo i nostri giochi a Ballarò, che era più pulita di oggi.
Allora, alle scuole elementari, alla Gaetano Daita, fui rimproverato dalla maestra, in prima elementare, di non saper parlare in italiano. Infatti, tutti ci esprimevamo solamente in strettissimo dialetto palermitano. Oggi è cambiato qualcosa: sono persino laureato.
La vita nei vicoli di Palermo
E, pensandoci, mi viene in mente, sempre in quel vicoletto dove abitavo (anni fa, lo rividi tutto diroccato e disabitato), tra la gente che lo abitava, il continuo entrare ed uscire dal negozietto chiamato la Taverna, gestito da ‘u’ zu’ Totò’, da cui mio padre mi mandava a comprare il vino. Accompagnato anche da una ‘acqu’ e ’sessa’, che non era altro che una bottiglia di seltz, molto economica, stranamente, che aveva un meccanismo di espulsione del contenuto di acqua frizzante, premendo una leva in alto. Occorreva portargliene una vuota per averne una piena.
E mentre riempiva il mio litro di vino, vedevo entrare gli avventori che ordinavano ‘un quai’tu e ‘na ‘zzusa’, ovvero un bicchierone di vino mescolato con una gazosa, forse l’antenato dei moderni mix tra alcool e bevanda frizzante dolce. Ai tavoli altri avventori bevevano vino alternandolo ad uova sode abbondantemente disposte in un piatto, già sbucciate. Ed ogni tanto qualcuno urlava: ‘carricu!’: evidentemente giocavano a briscola.
Aggirandosi nel vicolo, era tutta una serie di gambe distese per lungo su cui erano appoggiate delle sedie. Erano ‘i’mpagghiaturi’, gli impagliatori di sedie, che seduti distesi per terra, impagliavano le sedie: artigiani ormai scomparsi da tempo. Accanto a loro un fuocherello acceso dove cuoceva una rozza pentolaccia, con un puzzo acre che infestava tutto il vicolo. Era la colla da falegname, per incollare le sedie, che veniva ottenuta versandovi la colla solida in palline. Ogni impagliatore aveva accanto la sua colla che cuoceva e immaginate il tremendo odore che infestava tutte le stradine.
Era l’economia artigianale del posto, non ricchissima ma bastevole per vivere dignitosamente. Anche mio padre era un artigiano, ma delle calzature. Passava di lì, ogni mattina verso le dieci, ‘u’sfinciaru’, il venditore di sfincionello, che si sapeva doveva ‘a’bbanniari’. Aveva una cantilena, ripresa poi da altri, che diceva, pressappoco «‘sfincionelloo.. cavuru cavuru’». E mio padre, in sottofondo, a volte continuava la frase con una cattiveria, che pare si dicesse ai suoi tempi: sca’isu ru’agghi’u e chinu ri pruvulazzu’, cioè, per i non palermitani, “carente d’olio e pieno di polvere”.
Ma gli abbanniaturi, cioè i banditori di frutta e verdura, erano una costante, lì, ne passavano tanti. E tra le urla che si sentivano, si mischiava il rito della domenica mattina. Improvvisamente la signora del secondo piano si affacciava e urlava improperi e parolacce alla signora di fronte, che, data l’enorme ristrettezza del vicolo, poteva quasi toccare con mano. E tra noi dicevamo, opportunamente istruiti da mio padre: sono le ’stra’cchiulare’ o, peggio, i ’stra’fa’lari. Mi fermo quì.
Aggiungo che vengo spesso a Palermo, per il mio lavoro. Ed ogni volta la mia città è un balsamo che fa rinascere.
Vincenzo Scalia
Bellissimo articolo e piacevole lettura! Io abito da pochi anni nel centro storico ed amo riviverne la storia!
Grazie per questa memoria!
Complimenti per l’articolo. Potrei raccontare le stesse cose, anche se io ho 64 anni, non ho lasciato la Sicilia, vivevo alla Kalsa e passava “Ron Natate” (quello delle “arancine pulite e belle”) che spalmava le stesse nello zucchero