E’ una commedia di Paolo Ferrara in due atti.
Passato il tempo della Creazione, c’era una cosa che ci attirava: il teatro dialettale. Mi ricordo che andavamo a vedere le commedie al Giardino Inglese di Palermo dove vi era il famoso teatro Franco Zappalà con un attore davvero bravissimo che fondò una compagnia storica (gli attuali due Teatri Zappalà di Palermo sono fondati dai figli, rispettivamente Nino E Vito). Commedie come “Civitoti in pretura” o “San Giovanni Decollato” erano nel nostro cuore e una volta abbiamo chiesto a Paolo Gennaro (padre del Carmelo che ci aveva fatto recitare alla famosa Festa dell’Amicizia) di mettere in scena proprio San Giovanni. Purtroppo, dopo prove e tentativi, il progetto nato dal gruppo dei giovani della Parrocchia di San Tarcisio non andò in porto, resta però il bel ricordo della prova che partiva dalla scena iniziale della chiamata del protagonista a Lona, la moglie, e invece rispondeva Serafina, la figlia, dicendo: “Chi vuluti patri?”; battuta secca e detta in un dialetto semplice. Purtroppo la carissima ragazza che la doveva dire, Daniela Romeo, come tante ragazze non sapeva parlare in nessun modo il dialetto e veniva fuori in un italiano storpiato che ci faceva sorridere e faceva arrabbiare (in modo amorevole) il nostro regista. Proprio così, il Paolo Gennaro citato era il nostro regista, aveva recitato nella compagnia storica di Franco Zappalà e per noi era un mito, mi ricordo che quando recitava “A livella” di Totò restavamo tutti in silenzio ad ascoltare con una grandissima ammirazione.
Ma l’occasione del teatro dialettale non tardò a ripresentarsi. Questa volta non era il gruppo dei giovani della parrocchia ad organizzare l’evento, ma il gruppo parrocchiale degli adulti che stava preparando, con la regia di Paolo Gennaro, una commedia appunto “Patto a quattro” di Ferrara. Anche il figlio di Paolo, il nostro amico Carmelo, vi recitava e ci avrebbe “raccomandato” per farci dare tre parti.
Finalmente il teatro…le parti non erano grandissime: io facevo il giovane medico nipote dell’Arciprete che per amore era pronto a suicidarsi e Giorgio e Giuseppe facevano due seminaristi che poi si sarebbero “spogliati” sempre per amore. Ma che importavano le parti? L’importante era essere in quella compagnia con tanto di suggeritore (che poi facevo io), regista, costumi, prove vere e soprattutto respirare un’aria diversa.
Subito ci siamo resi conto che teatro non è soltanto gioia e divertimento, ma era soprattutto serietà, rigore e prove…tre mesi di prove quasi ogni sera, imparare le parti, l’intonazione, i passi e soprattutto sottostare al regista.
Noi che fino ad allora pensavamo al teatro come improvvisazione, libertà, leggerezza e scherzo siamo stati schiacciati: tutto quel lavoraccio per due sole repliche! La cosa bella però era il piacere di stare in un gruppo con i più grandi e sentirsi parte di qualcosa che nasceva sera per sera e che poi sarebbe diventata una comunità. Infatti la maggior parte di quelli che abbiamo partecipato alla commedia abbiamo anche fatto parte della Prima Comunità Neocatecumenale di San Tarcisio (e adesso ne faccio parte insieme a mia moglie e le mie figlie in un’altra Parrocchia sempre con lo stesso spirito).
Mi ricordo che alla prima replica avevo il vestito stiratissimo, sembravo un figurino, alla seconda lo dimenticai posato sopra la panca dove ovviamente si sedevano tutti, entrai in scena che sembravo alzato dal letto e l’ilarità che suscitò il mio ingresso in scena in quelle condizioni non fu molto gradita dal regista che diceva che la mia doveva essere una parte drammatica…
Da quella bella esperienza teatrale saremmo passati al teatro popolare dopo 15 anni (“W Santa Rosalia”) e per cimentarci in un’altra opera di teatro dialettale nel 2003 abbiamo fatto tre parti nel Malandrino al teatro Zappalà con la Turina e la regia di Nino Zappalà.
Anche lì essere sotto regia teatrale, per tre cabarettisti come noi, non era semplice. Mi ricordo che Giorgio aveva trovato una bella battuta a soggetto che faceva ridere tutti, a il regista non amava l’improvvisazione, ovviamente Giorgio la fece ugualmente e grazie al fatto che il pubblico rise molto riuscì ad essere perdonato.
Successivamente per essere più liberi abbiamo scritto noi alcune farse come “Questa casa non è una Chiesa” insieme al grande e compianto Gustavo Scirè ma anche lì, avendo lui la regia, qualche dazio si dovette pagare, poco in realtà perché avendo l’anima comica ci perdonava tante sbavature che ci facevano spesso “deviare” verso il cabaret. Addirittura lo abbiamo convinto a salire sul palco insieme a noi creandosi un personaggio carino per accontentarci. E la compagnia era composta da me che facevo il sindaco, Giuseppe che faceva mio padre, Giorgio impersonava un prete, suo nipote, un ingegnere ed Elena Sparacino nella parte di mia moglie, con la collaborazione di Ernesto Scirè e la regia e la partecipazione straordinaria del grande Gustavo.
Stavamo ultimamente preparando un’altra commedia scritta insieme a lui, ma a causa del covid l’abbiamo rimandata. Speriamo di ritornare a recitare un copione fisso, pur sotto regia ma con la certezza che ci divertiremo comunque.
-Sì ma a me ogni volta mi rimproverano. Giorgio non è cosa tua stare sotto regia!
-Devi improvvisare sempre, come spesso fai anche nel cabaret. Giuseppe, come dico sempre, se Giorgio seguisse un copione…
-non sarebbe Giorgio. Appunto!