Tutti i palermitani hanno sentito parlare di Emanuele Notarbartolo principalmente grazie alla grande strada che porta il suo nome, tuttavia non tutti conoscono la storia di questo personaggio e del motivo per cui è diventato tristemente famoso soprattutto dopo la sua morte, avvenuta il primo Febbraio 1893 per mano di due sicari della mafia, che lo colpirono con 27 coltellate mentre viaggiava sul treno che lo riportava a Palermo.
Sebbene sia trascorso oltre un secolo dal sanguinoso avvenimento, alcuni passaggi di questo delitto rimangono ancora oscuri.
Ma perché è stato assassinato? Scopriamo di più su questo personaggio.
La vita
Emanuele Notarbartolo marchese di San Giovanni, nonostante i suoi nobili natali non ha certamente vissuto da agiato “figlio di papà”. Rimasto orfano in giovane età, girò per l’Europa dove si appassionò alla politica e all’economia.
Tornato in Sicilia come garibaldino, ricoprì diversi incarichi pubblici nel neonato Regno d’Italia, fino ad essere eletto sindaco di Palermo nel 1873. Il suo nome appare tra i promotori della costruzione del Teatro Massimo, ma la fama di Notarbartolo era dovuta soprattutto alla sua integrità morale, che lo portava spesso a scontrarsi con una realtà politica già allora corrotta e asservita agli interessi di forze esterne, tra cui la rampante mafia siciliana, in seguito nota come “Cosa Nostra”.
Grazie alla sua nomea di uomo irreprensibile, nel 1876 fu nominato direttore del Banco di Sicilia, in un periodo nero per il sistema bancario iniziato dopo l’Unità d’Italia. Una serie di pessime iniziative politiche causò il fallimento e la chiusura di molte importanti banche, prevalentemente al sud. Qui, dei direttori di banca più influenti che competenti, iniziarono ad elargire grossi prestiti ad imprenditori e costruttori, senza richiedere adeguate garanzie e applicando termini di restituzione piuttosto morbidi.
L’arrivo di Notarbartolo quindi fu una vera e propria scossa per un Banco di Sicilia in piena crisi e con enormi buchi di bilancio.
La sua prima mossa fu quella di esigere la restituzione dei prestiti e richiedere congrue garanzie a fronte delle numerose richieste di credito.
Questo nuovo approccio gli causò presto grandi antipatie da parte di imprenditori, mafiosi, ministri e colleghi, tutti interessati ad ottenere fondi in maniera semplice, senza dover dare troppe giustificazioni.
Tra i suoi maggiori oppositori figurava un certo Raffaele Palizzolo, uomo politico, membro del consiglio d’amministrazione della banca, presidente di vari enti pubblici, futuro deputato alla Camera per quattro legislature e rappresentante degli interessi di numerosi uomini di potere, tra cui alcuni membri di Cosa Nostra. Insomma, il perfetto specchio del lato peggiore della politica.
Per rendere l’idea del personaggio, le testimonianze dell’epoca raccontano che Palizzolo ogni mattina, ricevesse nella sua camera da letto la visita di uno stuolo di persone in cerca di favori, i quali lo trovavano ancora nel suo pomposo letto a baldacchino con la vestaglia indosso.
In quegli anni a Palermo comandava lui.
Quando nel 1882 Notarbartolo fu vittima di un sequestro, risoltosi con il pagamento di un sostanzioso riscatto, lo stesso Palizzolo figurò tra i possibili mandanti, tuttavia dopo una frettolosa indagine, il suo coinvolgimento non fu provato e il tutto si concluse con una rapida archiviazione.
Questa vicenda comunque non intimorì il direttore del Banco di Sicilia, il quale continuò con la sua politica conservativa e la sua attenta amministrazione, almeno fino al 1890, quando i suoi oppositori, con l’appoggio del governo Crispi e delle più importanti correnti imprenditoriali siciliane, riuscirono infine a sollevarlo dall’incarico.
Fu un duro colpo per Notarbartolo, il quale però non si arrese e continuò la sua personale battaglia contro la corruzione del sistema.
Alcuni suoi fedelissimi, lo tenevano informato dall’interno sulla nuova amministrazione del Banco di Sicilia e sulla rinascita del sistema che per lui anni aveva osteggiato.
Nel 1892 il nuovo governo Giolitti ordinò una serie di ispezioni in alcune banche (tra cui anche il Banco di Sicilia), sospettate della conduzione di affari illeciti. Secondo alcune voci era stato proprio Notarbartolo a sollecitare le ispezioni, segnalando segretamente alcune operazioni illegali di cui era venuto a conoscenza. Lo stesso Notarbartolo era tra i maggiori candidati ad acquisire nuovamente il controllo della banca.
Il tutto conduceva ad una nuova, invisa, gestione oculata dei crediti in Sicilia, scenario che non si concretizzò mai. L’1 Febbraio 1893 Emanuele Notarbartolo fu ucciso sul treno Termini-Palermo, inaugurando una stagione di omicidi di stampo mafioso che sarebbe andata avanti per oltre un secolo.
Il processo Notarbartolo
La morte di un personaggio pubblico di tale importanza, alzò un grande polverone non solo in Sicilia.
Le prime indagini portarono a sospettare della complicità di un ferroviere e di un sicario della cosca mafiosa di Villabate, Giuseppe Fontana, mentre la testimonianza di un carabiniere indicò Raffaele Palizzolo come possibile mandante, perché venuto a conoscenza di un brindisi nella villa del politico, dopo aver appreso la notizia della morte di Notarbartolo.
Il Tribunale di Palermo però reputò insufficienti tali prove e si affrettò ad assolvere tutti gli imputati, senza nemmeno scomodare alcuni testimoni chiave, tra cui lo stesso Palizzolo.
Qualche tempo dopo la deposizione di un detenuto costrinse il Tribunale a riaprire il caso a carico di Fontana e dei due ferrovieri. Il primo fu nuovamente assolto, gli altri due, evidentemente meno importanti, rinviati a giudizio.
A questo punto il figlio della vittima, Leopoldo Notarbartolo, in cerca di giustizia chiese ed ottenne lo spostamento del processo da Palermo a Milano.
Questa volta le indagini furono svolte a dovere e numerose testimonianze svelarono l’esistenza di un sistema di corruzione che coinvolgeva la malavita e le più alte istituzioni. Per la prima volta il mondo sentiva parlare della mafia.
Il processo di Milano condannò gli esecutori materiali dell’omicidio, i mandanti rimasero ancora anonimi ed impuniti.
Nel 1899 la Corte di Assise di Bologna ottenne l’autorizzazione a processare Raffaele Palizzolo, che intanto era stato eletto alla Camera dei Deputati. In questa occasione vennero per la prima volta alla luce dei rapporti tra mafia e politica che arrivavano fino alle più alte sedi dello stato. Il processo si concluse nel 1902 con la condanna di Palizzolo a 30 anni di carcere.
Solo un anno più tardi la Cassazione annullò la sentenza di condanna per un vizio di forma.
Al nuovo processo, tenutosi a Firenze nel 1904, la difesa riuscì abilmente a smontare tutte le vecchie prove a carico degli imputati.
L’accusa contava su un testimone a sopresa, un certo Filippello, che sosteneva di aver partecipato all’assassinio e che era pronto ad accusare il suo ex compagno Fontana e il mandante, Palizzolo.
Qualche giorno prima della deposizione Filippello fu trovato morto, ufficialmente suicida.
Il processo si concluse con un’assoluzione generale per mancanza di prove.
Tornato a Palermo, Palizzolo fu accolto da una folla festante e portato in trionfo.
Giustizia non fu fatta.
Fonti:
Enciclopedia Treccani
vittimemafia.it