Le torri d’acqua di Palermo sono uno degli elementi architettonici che più caratterizzava la nostra città fino al secolo scorso, quando non vi erano ancora gli alti palazzi che oggi hanno invaso la Conca d’Oro, e quando il sistema di distribuzione delle acque contava ancora su questo ingegnoso strumento, noto ed utilizzato sin dai tempi antichi tra civiltà come quella romana ed araba.
Ancora oggi camminando per i quartieri è possibile intravedere i resti di queste strutture verticali, di solito munite di scalette in ferro, che un tempo rappresentavano una risorsa strategica indispensabile.
Ecco in cosa consisteva questo elaborato impianto idrico, costituito da alte torri disseminate per la città.
La storia delle torri d’acqua di Palermo
Contrariamente a quanto alcuni credono, Palermo è una città che da sempre è stata ricchissima di corsi d’acqua. Il nucleo più antico della città è stato fondato proprio tra i fiumi Kemonia e Papireto, ma anche nelle campagne circostanti l’Oreto, il Gabriele e altri corsi d’acqua minori hanno fatto della Conca d’Oro un vero e proprio paradiso di giardini e fontane.
Nessun problema dunque per chi, come molti, per secoli si è recato presso fiumi e fonti a riempire l’acqua da utilizzare poi per uso domestico. Tuttavia la particolare conformazione di Palermo non rese la vita facile a chi invece voleva dotare la propria abitazione di un impianto idraulico, esigenza che col passare del tempo interessò porzioni sempre più ampie della popolazione di Palermo.
Il problema principale consisteva nel fatto che le sorgenti d’acqua più vicine alla città, erano situate ad altitudini relativamente basse, dunque non era possibile creare impianti che per caduta sfruttassero la naturale pendenza del terreno per portare l’acqua “a pressione” fino in città. Ecco perché si decise di ricorrere all’ingegnoso metodo delle torri piezometriche, anche note come torri d’acqua o “castella dividicula“.

Questo sistema consisteva nel portare l’acqua dalle fonti, tramite dei condotti sotterranei, ad una serie di vasche poste alla stessa altezza della sorgente, quindi in cima a delle torrette disseminate per la città. In questo modo, grazie al sistema dei vasi comunicanti, le vasche venivano costantemente riempite e permettevano poi di smistare il flusso ad altre torrette più basse o direttamente alle abitazioni.
La presenza di una vasca nelle vicinanze, permetteva quindi di godere di una pendenza tale da garantire una pressione sufficiente all’interno delle case.
Spesso i castelletti venivano costruiti sulle mura della città o sui tetti delle abitazioni in modo da raggiungere più facilmente l’altezza pari a quella delle sorgenti. Ancora oggi si vedono i ruderi di queste costruzioni con i “catusi” che si intrecciano lungo le mura antiche della città. Altre volte venivano dissimulati tra i palazzi e decorati con torri merlate, cornicioni e altri elementi architettonici che li rendevano più gradevoli alla vista. Un esempio ben mantenuto si troca nella piazzetta Sette Fate a Palermo.
Questo metodo semplice ma geniale, permise ad una città come Palermo di accrescersi e prosperare. Le torri continuarono a moltiplicarsi nel corso dei secoli, passando da poche torrette nel XVI secolo, a ben 67 “castelletti” (così erano chiamate), alla fine dell’800.
Allora perché si smise di utilizzarli?
La fine delle torri

Per quanto ingegneristicamente intelligente, il sistema delle torri piezometriche presentava non poche problematiche, soprattutto di natura igienica.
Innanzitutto le vasche di raccolta non erano chiuse ermeticamente, il che permetteva ad alghe, insetti e altri animali di proliferare, compromettendo naturalmente la salubrità dell’acqua. Inoltre il trasporto dalla sorgente e fino alle case si basava sull’utilizzo di tubi di terracotta (i catusi), che non sempre garantivano una perfetta tenuta e che, soprattutto nel tragitto sotterraneo, potevano spaccarsi contaminando l’acqua con fanghi o addirittura con acque nere.
Infine il sistema di distribuzione passava dalle mani dei gabelloti, che spesso decidevano dietro il pagamento della relativa tassa, come amministrare i flussi d’acqua, mandando i fontanieri fisicamente in cima alle torri a mettere degli stracci nei tubi per regolare quantità e pressione.
Tale gestione, oltre ad essere igienicamente rivedibile, spingeva i più poveri ad allacciarsi abusivamente alla rete, praticando fori nelle condutture ed intercettando l’acqua nel suo percorso (pratica che favoriva ulteriormente la contaminazione).
Alla luce di queste problematiche e con il progredire delle tecnologie idrauliche, il sistema delle torri fu gradualmente abbandonato.
Nel 1885 la città di Palermo decise di adottare un sistema di distribuzione più moderno, costruendo un nuovo acquedotto che portasse l’acqua in città dall’abbondante sorgente di Scillato. I due sistemi coesistettero fino al 1914, quando l’uso delle torri d’acqua fu abbandonato per sempre, lasciandoci solo qualche rudere a memoria di una grande opera segno di una tecnica che non c’è più.
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Fonti:
- Maria Di Piazza, Palermo Città d’Acqua, Aspetti Storici e Naturalistici dell’Acquedotto, AMAP S.p.A, Palermo 2008
- R. La Duca, Le torri d’acqua, in La città perduta…, vol. III
- Le torri d’acqua di Palermo: alta ingegneria tra qanāt e sudiciume – Edizioni KALÓS
- D. Monteleone – Le torri d’acqua di Palermo, quei testimoni secolari dimenticati – Eco Internazionale