In questo frammento di ceramica attica risalente alla seconda metà del V Sec. a.C. è ritratta una donna che piange e si lamenta. Si tratta di una “PRAEFICA” intenta al suo lavoro dietro retribuzione.
Ebbene sì! Le prefiche erano delle figure note nell’antica Grecia, donne che su commissione (la parola prefica deriva dal latino:donna preposta) andavano presso il defunto piangendo e straziandosi tanto quanto più erano pagate. La ricchezza del defunto spesso veniva resa palese dalla presenza di tante prefiche durante il funerale.
Le prefiche a Palermo
Intorno all’VIII sec. a.C. I Greci, abili navigatori quali erano, cominciarono a spingersi oltre la terra d’ origine. Durante i tanti viaggi nel Mediterraneo colonizzarono la Sicilia perché la trovarono amabile e accogliente, una terra che dava loro ciò di cui avevano bisogno: clima mite, terra fertile, acqua da bere e soprattutto la Sicilia era lì, bellissima, in mezzo al Mediterraneo, ottima posizione per i commerci e per il desiderio di egemonia. La terra non era disabitata…ma questa è un’ altra storia.
Molti Greci si stabilirono in Sicilia, altri commerciavano con la madre Grecia e con questa attività, si sa, passano le idee e gli usi e costumi che sono giunti fino ai nostri giorni. Il culto dei morti è sempre stato molto sentito a Palermo e in Sicilia in generale.
Oggi ai funerali le vedove sono molto contenute nel loro dolore, c’è rispetto verso il defunto nell’abbigliarsi, ma non il rigore di abiti neri. Negli anni passati non è sempre stato così. Fino a qualche decennio fa le donne ai funerali erano molto eccentriche nella manifestazione della sofferenza e con pianti, lamenti, grida e graffiamenti sul viso, onoravano il defunto.
Una breve parentesi merita il viso delle donne Palermitane e soprattutto quello delle prefiche durante la celebrazione che per mestiere dovevano rappresentare il dolore. La parola chiave era PATHOS la forte drammaticità nell’espressione del dolore: sopracciglia folte, unite e aggrottate contornavano un viso senza un accenno di trucco e poco curato per la presenza di una peluria evidente sul labbro superiore, i capelli raccolti col “tuppo” alla nuca, tutta la testa coperta da un fazzoletto di tessuto nero stretto sotto al mento. La donna non portava pantaloni.
In primis la moglie del defunto piangeva e gridava fino a strapparsi i capelli, seguita da una scia di parenti donne e amiche e prefiche pagate che sostenevano il “coro” durante la veglia funebre. Non era una vera e propria preghiera, ma più una litania di lamento, ripetuto all’infinito a cui si univa un movimento ondulatorio del corpo.
La marcia funebre che aveva luogo dalla casa alla chiesa a seguito del defunto avveniva sempre in pompa magna, con urla, pianti e svenimenti, tanto che la vedova veniva sempre scortata da parenti donne o uomini che dovevano sostenerla fisicamente nei momenti di mancamento.
Arte che affonda le sue radici nel tempo lontano o forte dolore per la perdita che veniva esorcizzata attraverso pianti e lagne?
Tutti i partecipanti al funerale, ma soprattutto la vedova, andavano vestiti rigorosamente di nero, il lutto, che per la persona piu stretta al defunto doveva durare almeno 18 mesi, dopo tale periodo si poteva utilizzare un bottone rotondo rivestito di tessuto nero da apporre all’abito o alla giacca in bella vista, affinché tutti sapessero della condizione di vedovanza.
Erina Marino
Bravissima erina spiegata benissimo complimenti
Complimenti per come è scritta questa storia, non la conoscevo mi è stata molto utile per comprendere alcuni comportamenti tipici della nostra terra.
Ricordo perfettamente quando da bambino ero costretto a mettere un bottone foderato di nero per testimoniare la perdita del nonno.
Peggio coloro che indossavano una fascia nera al braccio. Ed eravamo bambini… L’ostentazione esteriore di un lutto obbligato.